Ingiustizia a Perugia
Commentario critico alla sentenza della Cassazione sul processo Knox-Sollecito
un dettagliato sito web sull'ingiusta condanna di Amanda Knox e Raffaele Sollecito
Scritto da Luca Cheli

Il presente articolo vuole costituire un’analisi critica della sentenza della Cassazione 26455/13 che il 25 marzo 2013 (con annuncio dato il giorno successivo 26 e pubblicazione della motivazione il giorno 18 giugno 2013) ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher, al contempo confermando la condanna a tre anni inflitta in secondo grado alla Knox per calunnia ai danni di Diya Patrick Lumumba.

In quest’analisi verranno esaminate una per una le quattordici sezioni o capitoli in cui la motivazione ha suddiviso i motivi della decisione (da pagina 39 a pagina 74), evidenziando per ciascuna quelle che sono per lo scrivente le lacune, le contraddizioni o anche aspetti dubbi da un punto di vista di diritto di tali motivazioni.

Chi scrive non ha una formazione giuridica, se non quella da autodidatta che si è fatta seguendo questo e altri casi, perciò l’approccio sarà essenzialmente basato sulla logica e sui principi fondamentali del diritto, sui quali qualsiasi persona di buona volontà si può informare abbastanza facilmente.

Per spazzare ulteriormente il campo da fraintendimenti o ambiguità, si dichiara apertamente che l’autore è un fermo innocentista nell’ambito della causa in questione e che tuttavia cercherà di mantenersi, per quanto possibile, obbiettivo e neutrale, sostenendo argomentazioni logiche che siano le più ampiamente condivisibili possibile.

Si riconosce tuttavia che una completa obbiettività è in generale estremamente difficile e probabilmente impossibile per chi è decisamente schierato da una parte in un dibattito di questo tipo.
Iniziamo dunque, seguendo passo passo le argomentazioni della Suprema Corte.


Capitolo 1 – Premesse sui limiti del sindacato di questa Corte.

Basilarmente i Supremi Giudici affermano di aver eseguito la loro valutazione solo nell’ambito del “ragionamento probatorio, quindi il metodo di apprezzamento della prova, non essendo consentito lo sconfinamento nella rivalutazione del compendio indiziario”, anche se poi ulteriormente si precisa che non è affatto impedito ai giudici di Cassazione “di verificare se la valutazione operata sia avvenuta secondo criteri logici”.

Il confine è sottilissimo e di fatto si possono trovare sentenze della Suprema Corte in cui tale limite è percepito in un certo modo e altre (tra cui, ad avviso dello scrivente, questa) in cui esso è sentito come alquanto lasco.

Un altro campo in cui i criteri della Suprema Corte non appaiono essere sempre così coerenti è quello della valutazione degli indizi in base al comma secondo dell’articolo 192 del Codice di Procedura Penale: in particolare su che rapporto ci sia tra la prima fase in cui gli elementi indiziari vengono valutati ciascuno individualmente per valutarne gravità e precisione e la seconda in cui tutti gli elementi vengono valutati collettivamente (o “osmoticamente”, per usare un aggettivo molto caro agli estensori della presente sentenza) per valutarne la concordanza e anche se tale valutazione collettiva permetta di superare l’ambiguità che essi hanno se presi singolarmente.

Particolarmente, la Prima Sezione Penale della Cassazione critica i giudici di secondo grado di Perugia in quanto “la decisione impugnata presenta ictu oculi una valutazione parcellizzata ed atomistica degli indizi, presi in considerazione uno ad uno e scartati nella loro potenzialità dimostrativa, senza una più ampia e completa valutazione”.

In realtà la questione è abbastanza aperta ad interpretazioni: altre sentenze hanno interpretato in maniera diversa il rapporto tra le due fasi e i problemi di “atomizzazione” o “frammentazione” del quadro indiziario, per esempio, sempre la Cassazione a Sezioni Unite Penali (33748/2005, Mannino), scrive:

“Essendo stato privilegiato dalla Corte palermitana il metodo di lettura unitaria e complessiva dell'intero compendio probatorio, a fronte di una pretesa polverizzazione ed atomizzazione delle fonti di prova asseritamente operata dal giudice di primo grado, si è finito per dare rilevanza anche ad una serie di indizi che, pur analiticamente presi in esame in prime cure e ritenuti ciascuno di essi incerto, non preciso né grave (ovvero, trattandosi di dichiarazioni dirette o de relato di collaboratori di giustizia, neppure assistite da riscontri individualizzanti) e perciò probatoriamente ininfluente, sembravano tuttavia raccordabili e coerenti con la narrazione storica delle vicende, come ipotizzata dall'accusa e recepita dai giudici di appello.

Ma un siffatto metodo di assemblaggio e di mera sommatoria degli elementi indiziari viola le regole della logica e del diritto nell'interpretazione dei risultati probatori.”

Che pensare dunque? Forse che il giudizio dipende da quali giudici formano la Corte quel giorno e per quel caso?

Comunque, al di là del tema in sé, molto importante per il diritto italiano, nella concreta economia di questo caso, la suddetta disquisizione di principio assume un ruolo alla fine molto secondario, poiché, come vedremo, non si tratterà di stabilire se n elementi indiziari ciascuno poco affidabile individualmente possano essere rivalutati da una valutazione “osmotica”, ma che, grazie alla rivalutazione degli stessi  fatta da questa sentenza, ci si trova davanti a n elementi indiziari già di per sé attendibili individualmente.


Capitolo 2 – La condanna della Knox per il delitto di calunnia.

Come prima annotazione di merito c’è da dire che la Suprema Corte ritiene particolarmente importante e apparentemente addirittura dirimente ai fini della consumazione del reato di calunnia che la Knox abbia confessato alla madre in un colloquio in carcere il 10 novembre 2007 di provare rimorso per l’accusa rivolta a Lumumba, senza però averlo comunicato prima agli inquirenti, segnando così “l’assoluta mancanza di volontà di chiarire presso gli inquirenti la falsa indicazione”.

Tuttavia la Suprema Corte sembra ignorare (o quanto meno di sicuro trascura) l’esistenza del memoriale autografo della Knox del 7 novembre, nel quale si legge: “non ho mentito quando ho detto che pensavo che l’assassino fosse Patrick. Ero molto stressata in quel momento e pensavo veramente che lo fosse. Ma adesso ricordo che non potevo sapere chi fosse l’assassino, perché non sono ritornata alla casa [di Via della Pergola]. So che la polizia non sarà lieta di ciò, ma è la verità”.

Detto ciò, portiamo invece la nostra attenzione su di un aspetto puramente attinente al diritto, che se pur magari fondatissimo, come argomenta la motivazione, nell’ambito del diritto italiano, potrebbe invece fornire ampio spazio per un ricorso presso il Tribunale Europeo per i Diritti dell’Uomo (ECHR), si afferma infatti:

“E’ bene premettere, a confutazione di quanto sostenuto nei motivi di ricorso della difesa dell’imputata, che è principio affermato da questa Corte con continuità quello secondo cui la notizia di reato ben può essere tratta dalle dichiarazioni della persona sottoposta ad indagini preliminari, anche se in ipotesi inutilizzabili per la mancanza dell’avvertimento ex art. 64 c.p.p e che quindi si possa correttamente addebitare il reato di calunnia al dichiarante, sulla base di indicazioni accusatorie inutilizzabili o di dichiarazioni contenute in atto di interrogatorio nullo.”

Viene spontaneo chiedersi a cosa serva fornire garanzie e diritti all’imputato se poi le dichiarazioni rese in violazione di tali diritti o garanzie hanno comunque valore alla fine della costruzione di un capo di accusa ed eventualmente di una condanna.

In questo senso un ricorso a Strasburgo per violazione dell’articolo 6 (diritto a un equo processo) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) potrebbe avere conseguenze ben al di là di questo singolo caso per la giustizia italiana, visto che la Corte Costituzionale, con sentenza 113/2011 ha di fatto aperto la strada alla revisione quei processi che abbiano violato, in base a sentenza dell’ECHR, l’articolo 6 della CEDU.

C’è poi un altro aspetto, eminentemente di diritto, che suscita perplessità: nella sentenza si scrive che “risulta quindi manifestamente illogico il passaggio della sentenza in cui è stato giustificato che la Knox doveva ritenersi certa dell’innocenza del Lumumba, anche se lontana dal luogo del delitto”.

Ora, a pensar male verrebbe da dire che i giudici hanno dato per scontata una condanna della Knox per omicidio (o almeno la sua presenza sul luogo al momento dello stesso), ma se si esclude tale pensiero maligno non si può fare a meno di notare che, avendo essi demolito la spiegazione del perché l’imputata poteva sapere il Lumumba innocente per l’omicidio della Kercher (condizione necessaria per l’esistenza del reato di calunnia) nel caso essa stessa fosse estranea (anche fisicamente) al delitto, se mai il nuovo processo di appello dovesse assolvere la Knox, ci si troverebbe ad avere una condanna per calunnia priva di motivazione nel suo elemento fondamentale.

Forse sarebbe stato meglio annullare con rinvio anche la condanna della Knox per calunnia…


Capitolo 3 – La simulazione del furto.

La sezione riguardante la presunta simulazione di furto nella stanza di Filomena Romanelli sostanzialmente fa proprie le obiezioni avanzate dal ricorso del PG Galati e si allinea pressoché in toto con la ricostruzione effettuata nella sentenza di primo grado.

E’ al di fuori dello scopo del presente articolo una dissertazione puntuale sugli elementi costituenti indicazione o meno di una possibile simulazione, si vogliono invece qui far notare alcune imprecisioni e contraddizioni della sentenza su questo punto.

Innanzitutto si afferma che secondo la corte d’appello “l’interesse a simulare sarebbe stato del solo Guede […] tale affermazione del tutto assertiva, non era consentita, anche perché inficiata da contraddittorietà e frutto di omessa considerazione di dati acquisiti definitivamente agli atti. La sentenza che ebbe a condannare Rudy, non smentita sul punto da nuove emergenze, ebbe ad affermare che le tracce delle scarpe sporche di sangue del menzionato segnarono il percorso da lui seguito dalla camera della povera Meredith, alla porta esterna della casa, senza passare dalla camera della Romanelli, atteso che come è stato scritto, le tracce di sangue della vittima segnarono il percorso seguito dal Guede, senza alcuna deviazione”.

Allora, per prima cosa la teoria della simulazione da parte di Guede è solo un’alternativa molto secondaria nella motivazione della corte d’appello (Hellmann), in quanto è detto esplicitamente che la corte ritiene non essersi trattato di simulazione ma di vera effrazione, mentre i giudici della Cassazione tendono a presentare questa teoria secondaria quasi come elemento portante della sentenza cassata.

Bisogna inoltre dire che non è affatto vero che non vi sono state “nuove emergenze” al di fuori del processo di Rudy che possano mettere in crisi la ricostruzione di cui sopra: alle pagine 103-104 della motivazione di secondo grado si fa esplicito riferimento al fatto che la perizia Vinci ha trovato macchie di sangue sulla parte inferiore del tappetino del bagno, non in corrispondenza con quelle arcinote sulla parte superiore, che potevano essere perfettamente compatibili con l’aver Amanda Knox trascinato con i piedi bagnati tale tappetino dalla doccia fino alla propria camera, cancellando con tale atto una serie di impronte insanguinate lungo tale percorso la mattina del 2 novembre 2007.

Come ulteriore inconsistenza si può citare l’asserzione che fotografie e video dimostrerebbero che i frammenti di vetro erano sopra e non sotto i vestiti: in realtà sul fatto che le foto dimostrino l’esatto contrario sono d’accordo tanto la sentenza di primo grado (Massei, pag. 42-43) quanto quella di secondo (Hellmann, pag. 119), per quanto poi differiscano sul valore da attribuire a tali immagini.

Infine è da notare che la Suprema Corte, pur dando tanto valore in chiave simulativa ai frammenti trovati sopra gli oggetti, non si chiede come spiegare, sempre nel contesto di una simulazione, quelli trovati sotto.


Capitolo 4 – La testimonianza Curatolo

Il capitolo dedicato all’ormai defunto clochard perugino è nell’opinione dello scrivente un mix di apparente incomprensione di quanto realmente affermato nella sentenza di secondo grado e di escursione nel campo delle valutazioni di merito, cosa da cui, per mandato, la Suprema Corte dovrebbe astenersi.

Incomprensione perché, seguendo la falsariga dell’appello Galati, si prospetta il ragionamento della corte d’appello come volto a dimostrare che il Curatolo avrebbe visto gli imputati in Piazza Grimana la sera di Halloween e non la sera del 1 novembre, cosa palesemente impossibile visto che i loro movimenti per la sera del 31 ottobre sono noti e diversi.

Il punto però è che la motivazione di secondo grado prendeva spunto proprio dal fatto che il teste collocava i due imputati in un contesto spaziotemporale incoerente e confuso per argomentare che tutta la sua testimonianza era inaffidabile e che non si poteva essere certi di quando e se egli li avesse veramente visti.

Per quanto Curatolo possa avere, come ribadisce la Cassazione, riconosciuto i due imputati in aula come i due giovani che egli vide in Piazza Grimana, il fatto che egli li collochi (con abbondanza di dettagli e affermando di averli visti a più riprese) in un contesto, quello della sera di Halloween, in cui essi sicuramente non erano dove egli dice di averli visti, dovrebbe sollevare molti dubbi sull’attendibilità generale della sua testimonianza, ovvero su ogni punto di essa.

La Suprema Corte invece ritiene che l’elemento veramente importante a cui fare riferimento (“dato ad elevatissimo quoziente di univocità, più di ogni altro”) è il fatto che nei ricordi del Curatolo egli collochi la vista di uomini vestiti di tute bianche (gli operatori della Polizia Scientifica) intorno al villino di Via della Pergola la mattina dopo la sera in cui afferma di aver visto gli imputati.

E’ difficile non considerare questa come una profonda incursione nel terreno delle valutazioni di merito: un conto è criticare (forse senza nemmeno capirlo bene) l’argomentare della sentenza annullata, un conto è indicare categoricamente quali elementi di una testimonianza debbano essere considerati di maggiore o addirittura assoluto valore.

Dal capitolo in questione si evince piuttosto chiaramente che la Suprema Corte crede che Curatolo abbia visto i due imputati in Piazza Grimana la sera dell’omicidio, con ciò rivalutando in pieno la ricostruzione della sentenza di primo grado ed è difficile immaginare come tale implicita indicazione possa essere ignorata dai giudici del nuovo processo di appello.


Capitolo 5 – La testimonianza Quintavalle.

Per quanto concerne Marco Quintavalle, all’epoca titolare di un minimarket nei pressi di Piazza Grimana e che testimoniò di aver visto Amanda Knox entrare nel suo esercizio molto presto la mattina del 2 novembre, le critiche della Suprema Corte alla sentenza di secondo grado si concentrano sull’averne sminuito il valore indiziario, sull’aver trascurato alcuni dettagli della testimonianza e sulla valutazione della formazione progressiva nel tempo della convinzione da parte di Quintavalle di aver visto proprio la Knox quella mattina.

Sul primo punto la sentenza della Cassazione contesta che “la corte ebbe a premettere (pag. 51 sentenza) che il dato che la Knox si fosse presentata di primissima mattina ad acquistare detersivi il giorno seguente al fatto di sangue, anche se accertato, non rivestiva alcuna rilevanza. Ebbene questo semplicemente non è vero, perché a pagina 51 della sentenza di secondo grado sta in verità scritto: “In verità si tratterebbe, anche se in ipotesi circostanza vera, di un elemento indiziario debole, in quanto di per sé solo non idoneo a provare neanche presuntivamente la colpevolezza”, che è cosa diversa.

Passando al secondo punto la Suprema Corte accoglie le doglianze del PG sull’omissione, in fase di motivazione da parte della corte d’appello di Perugia, del fatto che il Quintavalle avesse affermato di aver visto ad un certo punto di fronte e da distanza ravvicinata la ragazza. Si può accogliere l’obiezione in se stessa, in quanto il punto avrebbe dovuto essere considerato, tuttavia sarebbe stato da meglio valutare se davvero tale omissione potesse far cadere nell’illogicità o nella carenza motivazionale l’intera trattazione del Quintavalle da parte della sentenza di appello.

Infatti tale sentenza considerava anche altri aspetti critici nella testimonianza del Quintavalle, quali l’aver affermato che la supposta Knox indossasse un cappotto grigio, da lei mai posseduto, nonché il fatto che questa ragazza nulla aveva acquistato nel suo negozio (su questo punto Quintavalle non è chiaro ma dai suoi scontrini di cassa non risultano acquisti per quell’ora), dettaglio che mal si concilierebbe con la presunta necessità, secondo l’impianto accusatorio e la sentenza di primo grado, da parte della Knox di acquistare materiale per effettuare la pulizia della scena del crimine.

Da notare, en passant, che con una certa originalità, la Cassazione identifica tali pulizie con quelle di indumenti, non di pavimenti come generalmente ritenuto nelle ipotesi accusatorie.

Ma infine il punto più importante è probabilmente il terzo, cioè se la convinzione del Quintavalle di aver davvero visto Amanda Knox si formò solo progressivamente nel tempo e se in tal caso tale convinzione può essere ritenuta credibile.

La Suprema Corte su questo aspetto sembra un po’ ambigua, perché di fatto conferma che la convinzione si formò nel tempo, ma pare accettare tale evoluzione come fatto normale se non addirittura rafforzativo della deposizione.

In particolare si legge “il teste ebbe a chiarire nei passi della sua deposizione, di essersi convinto della identità della ragazza apparsa sui giornali con quella che si presentò a lui di prima mattina il 2 novembre 2007, visto che dalla foto non appariva il colore degli occhi, ma di avere acquisito certezza, una volta vista direttamente la ragazza in aula.[…] il testimone ebbe a spiegare le ragioni delle sue perplessità e la evoluzione della sua convinzione in termini di certezza”.

Dunque a parere dei Supremi Giudici Quintavalle acquisì la certezza della propria identificazione della ragazza da lui vista con Amanda Knox soltanto quando la vide in aula e cioè anche dopo un anno dal fatto, diciamo pure un anno e mezzo.

Se poi il problema del Quintavalle era tutto nel fatto che dalle foto in bianco e nero dei quotidiani non si poteva riconoscere il colore degli occhi della Knox, viene spontaneo chiedersi come mai il teste non sia stato spinto dalla propria incertezza a procurarsi una copia dei tanti settimanali pieni di belle foto a colori che nel corso di quell’anno misero più volte tanto in copertina quanto nelle pagine interne numerose foto, appunto a colori, della Knox, tratte tanto dalle udienze preliminari quanto di fonte americana.


Capitolo 6 – La mancata valorizzazione del memoriale della Knox.

La sentenza della Corte di Cassazione ritiene che la corte d’appello non abbia valutato con sufficiente attenzione il memoriale scritto dalla Knox nella mattina del 6 novembre, nel quale essa si colloca apparentemente nella casa di Via della Pergola al momento del delitto.

La Suprema Corte ammette che si tratta di affermazioni scritte “collocandosi in un contesto più onirico che reale” e che “si tratta di riflessioni di dubbio significato sostanziale”, ma tuttavia afferma che “non potevano essere liquidate – come furono –sul presupposto della pressione psicologica a cui fu posta l’autrice e della manipolazione psichica operata, in primis perché lo scritto fu confezionato della piena solitudine successivamente agli eccessi inquisitori e poi perché proprio quello scritto venne usato dalla stessa corte di secondo grado come base probante del delitto di calunnia, sul presupposto della piena capacità di intendere e volere, tanto da venire la Knox condannata anche sulla base di questo scritto”.

Qui sono due i punti dove la motivazione della sentenza appare perlomeno dubbia.

Il primo riguarda quanto il fatto che il memoriale sia stato scritto qualche ora dopo la fine dell’interrogatorio notturno possa renderne il contenuto libero dagli effetti psicologici degli “eccessi inquisitori”: la Suprema Corte tanto in questa sezione quanto in quella precedente dedicata alla calunnia lo dà praticamente per scontato, ma è un aspetto in realtà  molto discutibile.

Sul secondo aspetto il discorso è sottile: la corte di secondo grado afferma sì che il memoriale non fu scritto in una condizione di incapacità di intendere e volere (Hellmann pag. 34), tuttavia tale memoriale viene pure definito “la narrazione confusa di un sogno” (Hellmann pag. 32) e che in esso l’autrice “scrive di una confusione totale, di non essere in grado di ricordare quanto le viene chiesto” (Hellmann pag. 33): è dunque quantomeno dubbio che davvero la corte di secondo grado abbia ritenuto tale memoriale un elemento a carico nella condanna per calunnia.


Capitolo 7 – La mancata valutazione del contenuto della sentenza definitiva pronunciata contro Rudy Guede.

Uno dei più controversi aspetti della sentenza sotto esame è senza dubbio il forte legame di dipendenza nei confronti della sentenza passata in giudicato del processo con rito abbreviato a cui è stato sottoposto Guede separatamente dagli altri due imputati.

E’ in realtà un problema che in prospettiva potrebbe toccare molti altri casi in Italia e che ha le sue radici nell’istituzione stessa, nel 1990, del rito abbreviato.

Il rito abbreviato avviene “allo stato degli atti”, cioè in questo caso facendo riferimento alle evidenze probatorie raccolte fino all’udienza davanti al GUP Micheli nell’autunno 2008; talvolta può essere ordinata una perizia aggiuntiva, ma non è stato questo il caso, eccetto che per una valutazione sul lavoro svolto dai laboratori della Polizia Scientifica.

Ora, è chiaro che il rito abbreviato è più veloce di quello ordinario ed è pure quasi sempre vero che si basa su informazioni parziali, dato che usualmente nel rito ordinario ne emergono altre durante il dibattimento (perizie, testimonianze, etc.).

Di conseguenza è praticamente inevitabile che se per un dato crimine ci sono più imputati e uno di essi  sceglie (ed è un suo insindacabile diritto) il rito abbreviato, l’esito del suo giudizio (che si basa quasi sempre su di un insieme di prove più limitato o addirittura superato perché corretto da successive evidenze emerse nel rito ordinario) arriverà ad essere confermato dalla Corte di Cassazione prima di quello degli altri imputati che hanno scelto il rito ordinario e, come ben si vede in questo caso, lo influenzerà pesantemente.

Questo è un grosso problema di diritto per l’Italia ma nel caso specifico potrebbe avere anche grosse conseguenze su di un’eventuale richiesta di estradizione della Knox a seguito di un’eventuale condanna, in quanto potrebbe configurarsi una violazione dei suoi diritti costituzionali (che hanno la precedenza sugli impegni dei trattati) in quanto l’esito del suo giudizio è fortemente dipeso da quanto deciso in un processo in cui lei non era rappresentata.

Questo aspetto è parzialmente vero anche in Italia ed infatti la Cassazione ammette che la sentenza Guede non può essere considerata “vincolante” per l’altro giudizio, tuttavia nel contesto statunitense esso è decisamente più sentito.

Lo scrivente non è certo un esperto di diritto USA (e nemmeno di quello italiano, se per questo), tuttavia ha seguito con molta attenzione un caso che, tra l’altro, è stato riaperto più o meno in contemporanea con quello di Perugia, quello della cittadina americana residente in Arizona Debra Milke, accusata di aver cospirato con due complici al fine di uccidere il proprio figlio di quattro anni nel 1989.

Ebbene quando i tre “cospiratori” vennero sottoposti a giudizio dopo il fatto si ebbero tre processi successivi separati e praticamente a tenuta stagna, nel senso che le dichiarazioni rese in uno di essi o i risultati di uno di essi non vennero neppure citate negli altri, nonostante i tre fossero accusati di cospirazione tra loro: è molto evidente quindi quanto diverso sia l’atteggiamento americano in merito.

Tornando ora alle questioni italiane e a questa particolare sentenza, la prima cosa che causa una certa perplessità relativamente al ragionamento svolto dalla Suprema Corte per l’indebita noncuranza della sentenza Guede da parte dei giudici d’appello di Perugia è la sua insistenza sull’importanza del possesso delle chiavi di Via della Pergola da parte della Knox.

Causa perplessità perché a fronte di un ragionamento piuttosto esteso ed argomentato della sentenza di secondo grado, che elenca i diversi motivi per cui la sentenza Guede oltre ad essere non vincolante è pure da considerarsi superata sotto l’aspetto della ricostruzione dei fatti, il primo e più pesante motivo di critica da parte della Suprema Corte sia la mancata considerazione della disponibilità delle chiavi.

Innanzitutto questo è un elemento che, pur avendo pesantemente influenzato le indagini sin dall’inizio, di per se stesso è molto meno ovvio di quanto sembrano credere tanto la Suprema Corte quanto la Pubblica Accusa, quasi che in tutta la storia del crimine mai ci sia stata occorrenza di un crimine da parte di qualcuno introdottosi in un’abitazione attraverso una scusa o sfruttando una conoscenza occasionale con la vittima.

In secondo luogo è poi particolarmente dubbio il modo in cui tale elemento (la disponibilità delle chiavi) dovrebbe rendere più significativo o di maggior influenza il giudicato del processo Guede nell’ambito del processo a Knox e Sollecito.

E’ ben vero che i supremi giudici argomentano che “la conclusione dei giudici di secondo grado, secondo cui anche a volere tenere ferma l’ipotesi del concorso necessario di persone, non per questo la sentenza [Guede] assume valore probatorio determinante per riconoscere negli attuali imputati i correi di Rudy, è frutto di un ragionamento basato su un’insufficienza argomentativa, poiché il dato della presenza di altre persone andava necessariamente correlato con il dato della disponibilità della casa”, tuttavia, anche a voler accettare quell’assai arbitrario “necessariamente”, anche volendo perciò assumere che Knox e Sollecito sono più candidati di altri a ricoprire il ruolo di complici di Guede perché avevano le chiavi, qual è il contributo aggiuntivo che la sentenza su Guede dà su questo punto, visto che la sua presunta importanza può essere ricavata in maniera del tutto autonoma da esso?

Forse la vera risposta sta in un passaggio successivo della sentenza sotto esame: “la sentenza acquisita [quella della Cassazione su Rudy] escludeva che il Guede fosse autore della simulazione di reato che veniva riconosciuta sussistente ed imputabile ad altri soggetti”.

Un passaggio che suona tanto come “l’effrazione è simulata perché così si è deciso in un altro processo passato in giudicato”.

Certamente poi la Suprema Corte cita alcuni dettagli tratti dalla sentenza su Guede e a suo dire trascurati dalla corte d’appello nella sua valutazione dell’effrazione, tuttavia a questi se ne potrebbero opporre altri di segno opposto e la sensazione generale che si trae dalla lettura di questo capitolo è che i supremi giudici ritengano come dato definitivo l’esistenza di una simulazione e che a tale dato i giudici del processo a Knox e Sollecito, passati e futuri, si debbano scrupolosamente attenere.

Con una conclusione un po’ pilatesca i supremi giudici chiudono il capitolo dicendo che vi è un “difetto di adeguata motivazione nel passaggio cruciale della ricostruzione del fatto che attiene alla presenza di concorrenti nel reato, nell’abitazione nella disponibilità oltre che della vittima, della sola Knox, in quella maledetta serata, profilo che non va sicuramente inteso in un automatismo probatorio, ma che costituisce un segmento significativo nell’itinerario ricostruttivo, da valutare unitamente agli altri elementi di prova.”

Un colpo al cerchio e uno alla botte.


Capitolo 8 – La valutazione delle dichiarazioni rese da Rudy Guede nel giudizio di appello.

A modesto parere dello scrivente il capitolo parte con un equivoco, attribuendo un significato errato a quanto affermato dalla corte di appello nella sua sentenza in merito alle dichiarazioni del Guede.

Avevano infatti scritto Hellmann e Zanetti (pag. 35): “Per quanto possa sorprendere, Rudy Guede non è stato mai interrogato nell’ambito del presente processo circa i fatti verificatisi la notte tra il 1 ed il 2 novembre 2007 in via della Pergola; né prima ai sensi dell’art. 210 c.p.p., né successivamente ai sensi dell’art. 197 bis c.p.p. cosicché, a prescindere dalla attendibilità o meno del medesimo, non sussistono dichiarazioni rese in tale veste aventi per oggetto i fatti principali del processo.”

Questa è un’affermazione neutra: si dice che Guede non ha mai testimoniato sui fatti nel contesto del processo Knox-Sollecito e si citano gli articoli del Codice di Procedura Penale in base al quale ha potuto esimersi dal farlo. Nient’altro.

Ora leggiamo invece le conclusioni della Suprema Corte sul punto, che peraltro riprendono quasi letteralmente il testo dell’appello Galati , anch’esso all’apparenza caduto nell’equivoco:

“vizio di violazione di legge riscontrabile, ictu oculi, nel passaggio della sentenza in cui viene fatto carico al Guede (e verosimilmente all’organo dell’accusa) di non esser stato mai interrogato né in primo, né in secondo grado. Come correttamente rilevato dalla parte pubblica ricorrente, Rudy Guede era all’epoca del giudizio di primo grado a carico dei due fidanzatini, imputato in processo connesso ex art. 12 comma 1 lett. a), con il che l’art. 210 comma 4 cod.proc.pen. gli consentiva di non rispondere. L’art. 197 bis comma 4 cod. proc. pen. inoltre lo scioglieva dall’obbligo di deporre su fatti per cui era stata pronunciata la sua colpevolezza con sentenza di condanna, avendo egli negato le sue responsabilità e non avendo reso alcuna dichiarazione. Dunque nessuna forzatura della procedura sarebbe avvenuta per compiacere il coimputato, a danno di Knox e Sollecito, ma stretta osservanza dei parametri normativi di riferimento; né può essere ritenuta l’inattendibilità del medesimo, sul semplice presupposto che ebbe a rifiutarsi di deporre, essendosi semplicemente avvalso del suo buon diritto, riconosciutogli dalla legge.”

Si noti bene che si citano gli stessi articoli del Codice di Procedura Penale per dire la stessa cosa: Guede aveva diritto di tacere e l’ha fatto.

Punto.

Dove nella sentenza di secondo grado si accennerebbe a “favori” fatti dalla Pubblica Accusa al Guede a danno di Knox e Sollecito?

Dove nella sentenza di secondo grado si dichiara di ritenere il Guede inattendibile per il solo fatto di non aver testimoniato?
Dove?

Il resto del capitolo demolisce le ragioni con le quali la corte di secondo grado aveva ritenuto di vedere nella conversazione via Skype del Guede con l’amico Benedetti elementi favorevoli agli imputati Knox e Sollecito.

Per far questo, oltre a ripetere, avvalorandolo, un punto dell’appello Galati particolarmente discutibile, ovvero quello in cui si ritiene che Guede, collocandosi sul luogo del delitto al momento del delitto ma in un orario antecedente a quello ritenuto vero dall’accusa abbia voluto depistare, continua dando poi al Guede una notevole patente di totale inaffidabilità e definendolo pure “sicuramente protagonista principale” del crimine.

Il motivo per cui causa forte perplessità l’argomentazione del depistaggio è presto detto: non si capisce davvero che effetto depistante si otterrebbe a piazzarsi sul luogo del crimine al momento del crimine ma alterando tale orario.

Si capirebbe l’intento depistante se Guede avesse dichiarato di essersene andato mentre la Kercher era viva e vegeta, ma dichiarando di aver assistito al crimine e spostandolo di un paio d’ore (secondo la Pubblica Accusa) non si capisce davvero che effetto depistante si prefiggerebbe.

Al contrario, visto che nega la sua partecipazione materiale all’omicidio, avrebbe ogni motivo di riportare il corretto orario proprio per acquisire credibilità agli occhi degli inquirenti.

D’altra parte poi l’unico effetto depistante che si può ottenere collocandosi nel posto sbagliato al momento sbagliato ma cambiando l’orario è quello di apparire come un mitomane, ma qualcuno che ha lasciato le tracce che il Guede ha lasciato sulla scena del crimine e che sa di essere ricercato proprio in virtù di quelle tracce, non può davvero sperare di essere ritenuto un semplice mitomane.

Dicevamo poi che a Guede viene data una qualifica di totale inattendibilità, e infatti le parole “inaffidabilità” e “generale” o “totale” vengono ripetute tre volte in una pagina: di conseguenza è ragionevole attendersi che qualsiasi dichiarazione futura di Rudy Guede non  avrà influenza alcuna sul processo a Knox e Sollecito.

Oltre a sancirne l’inattendibilità, la Suprema Corte addossa però a Guede anche un livello di responsabilità nel crimine che potrebbe avere, questo sì, effetti sul giudizio riguardante gli altri due imputati.

Con quella che, ad essere onesti, suona un po’ come un’incursione nel merito, la Suprema Corte afferma infatti (pag. 57): “Il messaggio captato non poteva essere valutato attendibile, non foss’altro per il fatto che lo stesso autore [Guede] si teneva lontano da quel fatto di sangue di cui fu sicuramente protagonista principale, per le numerosissime tracce che ebbe a lasciare sul luogo del delitto”

Si parlava di incursione nel giudizio di merito perché quanto sopra citato potrebbe essere letto come un’ammissione che Guede ha lasciato molte più tracce dei suoi complici e che quindi egli ha maggior responsabilità, da ciò potendo conseguire che la pena dei suoi complici andrebbe ridotta rispetto alla sua.

Questo è un punto potenzialmente foriero di notevoli conseguenze pratiche, come meglio vedremo nell’analisi della sezione conclusiva, la quattordicesima.


Capitolo 9 – Rigetto dell’istanza di audizione di Aviello Luciano.

Luciano Aviello è un pregiudicato e compagno di prigionia di Sollecito, che venne prima presentato come testimone della difesa, con un racconto abbastanza improbabile in base al quale l’assassino della Kercher era il fratello del teste, per una storia di quadri; in un secondo tempo Aviello ritrattò e divenne testimone d’accusa, affermando che Raffaele Sollecito in carcere gli aveva confessato le responsabilità proprie e della Knox nell’omicidio, avvenuto per motivazioni di tipo “sessuale”.

Ora, a prescindere dall’attendibilità intrinseca di un teste capace di così notevoli giravolte a 180 gradi, tema sul quale la Suprema Corte non si esprime, dicendo solo che da un’eventuale audizione “il giudizio di inaffidabilità avrebbe anche potuto essere rafforzato”, il resto del capitolo è un discorso di dettaglio su questioni procedurali che superano di gran lunga le competenze in materia dell’autore del presente articolo e perciò ci si rimetterà alle conclusioni della Corte.

Se proprio dobbiamo sentire Aviello, con questa o quella versione, vorrà dire che lo sentiremo a Firenze.


Capitolo 10 – La riparametrazione operata in secondo grado sull’ora della morte.

E’ questo il capitolo in cui forse la Suprema Corte entra più pesantemente nell’ambito del giudizio di merito, formulando anche proprie ipotesi alternative e cioè sollevando ampie perplessità sul rispetto dei limiti che essa stessa si era imposta, in accordo con le norme di legge, nel capitolo primo della motivazione.

Sostanzialmente la Corte ritiene che la determinazione dell’orario della morte di Meredith Kercher così come effettuato nella sentenza di primo grado, basandosi prevalentemente sulle più o meno convergenti testimonianze delle signore Capezzali, Monacchia e Dramis, superi per logicità e affidabilità quella effettuata dalla corte d’appello, che si basava soprattutto su di elementi riscontrati da una perizia sul telefonino della vittima, sulla chat di Guede con Benedetti e su alcune considerazioni logiche.

La Suprema Corte applica nei confronti della chat via Skype di Guede tanto un’operazione di negazione di validità basata sul giudizio di totale inaffidabilità del Guede emesso nel procedimento che lo ha riguardato, quanto una logica secondo la quale le parole di Guede possono solo essere accettate o totalmente o per nulla.

Infatti i supremi giudici censurano la corte d’appello di Perugia per essersi basata su alcune affermazioni fatte da Guede nella suddetta chat e relative all’orario della morte (da lui indicata intorno alle 21.30), al contempo non prestando attenzione al fatto che nella stessa chat Guede collocava Amanda Knox sulla scena del crimine e che soprattutto escludeva “di aver visto rotto il vetro della camera della Romanelli per tutto il tempo in cui ebbe a trovarsi in detta dimora. Realtà del tutto disattesa dalla corte, in un passaggio immediatamente successivo, allorquando ebbe a concludere che fu il Guede ad essere entrato dalla finestra della stanza della Romanelli, dopo aver lanciato il sasso di quattro chili dal terrapieno esterno sottostante la finestra, così realizzando un’insanabile contraddizione interna, che evidenzia il tasso sempre più marcato di illogicità che permea la sentenza”.

Dunque Guede per la Suprema Corte è come la Rivoluzione Francese per Clemenceau: può essere solo accettato o rifiutato in blocco, come un tutt’unico.

Non sembrano pensare i supremi giudici che l’autore di un’effrazione possa avere interesse a negarne l’esistenza piuttosto che ad ammetterla, né forse si sono resi conto che Guede nella chat non parla esplicitamente di Amanda Knox ma di una voce femminile che sente discutere animatamente con Meredith Kercher (in una lingua non specificata, ma è dubbio che Guede sarebbe stato in grado di riportare il contenuto di un litigio tra due persone di madre lingua inglese che in tale stato d’animo non si sarebbero certamente messe a cercare le parole in italiano) e che tra l’altro è stata fatta entrare in casa dalla Kercher dopo aver suonato il campanello, particolare questo che dovrebbe generare almeno qualche dubbio sull’identità della sconosciuta negli strenui sostenitori della teoria della “disponibilità delle chiavi”.

Comunque, una volta tolto ogni valore all’orario riportato in chat da Guede, la Suprema Corte prosegue demolendo il valore probatorio dell’esame delle tracce sul cellulare della vittima e qui compie un passo particolarmente critico, formulando ipotesi alternative proprie su elementi di fatto: “suona del tutto implausibile che si possa fondare un’alternativa ipotesi ricostruttiva sulla base del fatto che poiché la vittima non ebbe a ripetere la chiamata a casa dopo le 20.56, sarebbe giocoforza ritenere l’intervento di accadimento infausto: la prima mancata risposta dei familiari potrebbe aver indotto la giovane a ricordare impegni serali degli stessi che si potevano protrarre fino a tardi e quindi è assolutamente ragionevole pensare che la giovane inglese abbia desistito, per ragioni non legate necessariamente alla sorte che le sarebbe poco dopo toccata.”

Si richiama ora quanto scritto dagli stessi giudici nel capitolo ottavo della stessa sentenza a pagina 56: “avendosi riguardo a parametri valutativi non già rimpiazzabili con altri non meno validi e congruenti (situazione che precluderebbe qualsivoglia incursione ad opera di questa Corte, Sezioni Unite, 31/5/2000 n°12) ma a …”.

Andando un passo oltre citeremo anche un articolo (http://docente.unife.it/cristiana.valentini/materiali-1/Motivazione-Canzio.pdf) del consigliere di Cassazione Giovanni Canzio sul tema dei limiti dell’operato della Corte di Cassazione nei confronti di una sentenza di appello e in particolare il seguente passaggio a pagina 6 dello stesso:

“In ordine alla definizione dei confini del controllo di legittimità sulla motivazione in fatto, può dirsi peraltro ormai consolidato il principio giurisprudenziale, ripetuto in plurime sentenze delle Sezioni Unite penali (Cass., Sez. un., 13/12/1995, Clarke; Sez. un., 19/6/1996, Di Francesco; Sez. un., 30/4/1997, Dessimone; Sez. un., 24/11/1999, Spina; Sez. un., 21/6/2000, Tammaro; Sez. un., 31/5/2000, Jakani; Sez. un., 24/9/2003, Petrella; Sez. Un., 30/10/2003, Andreotti; Sez. un., 12/7/2005, Mannino), per il quale la Corte di cassazione ha il compito di controllare il ragionamento probatorio e la giustificazione della decisione del giudice di merito, non il contenuto della medesima, essendo essa giudice non del risultato probatorio, ma del relativo procedimento e della logicità del discorso argomentativo. Le contestazioni del ricorrente non possono risolversi in una non ammessa rilettura degli acquisiti elementi di prova, perché la Corte non può procedere a una nuova e diversa valutazione degli elementi materiali e di fatto delle vicende oggetto del processo, e che le ricostruzioni alternative, al pari delle censure sulla selezione e l’interpretazione del materiale probatorio, non sono idonee ad accedere al giudizio di legittimità, poiché, in presenza di una corretta ricostruzione della vicenda, non è ammessa incursione alcuna nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti, né la possibilità di scrutinare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali.”

Certamente la ricostruzione della vicenda deve essere “corretta”, ma in questa particolare sezione della sentenza della Cassazione non si sta argomentando che l’uso fatto delle tracce trovate sul telefono della vittima è “illogico” o “contraddittorio”: si postula semplicemente un’ipotesi alternativa, magari anche possibile, ma semplicemente alternativa, non sostitutiva di un ragionamento illogico.

Preso atto di tale apparente forzatura, andiamo avanti e passiamo all’elemento centrale del capitolo: le testimonianze di Capezzali, Monacchia e Dramis.

La Capezzali riferisce di aver sentito un urlo straziante e poi poco dopo passi su di una scaletta in ferro e sulla ghiaia e sulle foglie secche di Via della Pergola.

La Monacchia sente un urlo, ma non passi di nessun genere.

La Dramis non sente l’urlo ma “passi di corsa sotto la finestra, come non ne aveva mai sentiti”.

Ora, a parte chiedersi come dovessero essere questi passi per meritarsi una tale qualifica di unicità, bisogna anche notare che le tre donne non guardano l’orologio e riferiscono la collocazione temporale dei fatti da loro testimoniati semplicemente come avvenuti più o meno dopo le 22.30 in tutti e tre i casi, ma quanto dopo non è dato sapere se non con margini di errore di almeno trenta minuti.

La Suprema Corte ritiene tali testimonianze concordanti e non si fa nessun problema sull’orario, diversamente dalla corte di appello che aveva scritto “mezz’ora più o mezz’ora meno non sono affatto indifferenti”.

Non contenta di ciò, la Suprema Corte fa un’altra incursione, verrebbe da dire alquanto esplicita, nell’ambito del giudizio di merito, definendo categoricamente (pag. 63) “l’urlo straziante sicuramente della povera Meredith”.

Di fatto quindi la Suprema Corte ha fissato l’ora della morte di Meredith Kercher a beneficio dei giudici del prossimo processo.

A sostegno di tale pesante affermazione i supremi giudici citano ancora il fatto che “dell’urlo straziante ne ebbe a fare cenno anche la stessa Amanda nel suo memoriale”, del cui contesto “più onirico che reale” gli stessi giudici avevano parlato qualche pagina prima ed infine il particolare che avendo i dati tanatologici indicato un range per l’ora della morte dalle ore 18.50 alle ore 4.50 del 2 novembre, le ore 23/23.30 del 1 novembre vi cadrebbero perfettamente in mezzo.

Non viene invece trattato, neppure per confutarlo, l’argomento speso dalla corte d’appello considerando che la vittima era ancora, quando fu aggredita, vestita  nello stesso modo in cui era stata vista per l’ultima volta dall’amica Sophie Purton e che a quest’ultima la Kercher aveva detto di essere stanca e di voler andare a dormire presto, rendendo così improbabile che fosse rimasta due ore sul letto ancora sveglia e pure vestita di tutto punto.


Capitolo 11 – Le ordinanze con cui venne disposta una nuova perizia genetica e con cui successivamente venne rigettata l’istanza di nuova perizia sulla nuova traccia campionata.

Come in un crescendo giungiamo qui ad uno degli elementi più controversi di tutto il caso ( e anche della sentenza), ovvero le perizie genetiche.

L’argomento è diviso in tre capitoli, questo, l’undicesimo, tratta specificamente delle tracce sul coltello sequestrato a casa di Sollecito e supposta arma del crimine, il successivo dodicesimo capitolo delle indagini genetiche più in generale e dell’argomento contaminazione in particolare, mentre il tredicesimo capitolo si occupa delle impronte e delle altre tracce, particolarmente quelle nel bagno piccolo in uso a Knox e Kercher.

A proposito della perizia Conti-Vecchiotti ordinata dalla corte d’appello, il ricorso Galati si era spinto fino a chiedere che ne fosse dichiarata l’illegittimità: su questo punto la Suprema Corte è molto chiara e pur dicendo che la sua necessità è stata malamente motivata, tuttavia ritiene tale perizia assolutamente legittima da un punto di vista di diritto.

Ciò che invece i supremi giudici censurano in questo capitolo è il fatto che non sia stata testata la nuova traccia campionata dalla Vecchiotti sul coltello, secondo loro addirittura in prossimità di quella attribuita “con forti contestazioni” alla vittima, cosa che a memoria dello scrivente non dovrebbe essere proprio corretta visto che la nuova traccia “36I” si trova vicino al manico, mentre la vecchia, famosa, 36B si trovava più vicino alla punta della lama.

Comunque, al di là di simili dettagli, è interessante analizzare la logica argomentativa della Suprema Corte su questo aspetto.

I supremi giudici ripetono più volte che tale decisione (di non testare la nuova traccia) è stata una decisione “assunta in solitudine da uno dei periti, la prof. Vecchiotti, senza una documentata preventiva autorizzazione in tal senso da parte della Corte […] Tale scelta incontrò peraltro la successiva condivisione del Collegio” e poi più oltre “In ogni caso non poteva uno dei componenti il collegio peritale assumere la responsabilità della decisione di autoridursi il mandato ricevuto”, non si capisce quindi se la Vecchiotti doveva chiedere un’autorizzazione scritta della Corte a non testare o se doveva testare comunque ed in ogni caso.

Dalle argomentazioni successive della Suprema Corte pare infine di capire che si doveva testare comunque e poi eventualmente discutere della affidabilità o meno dei risultati.

Nel corso di tale ragionamento la Suprema Corte entra di nuovo considerevolmente nel tema delle prove fattuali, arrivando a citare i dieci picogrammi (o anche meno) che Novelli, consulente della Procura, ritiene essere la soglia di sensibilità della strumentazione attuale in ambito diagnostico (che la Suprema Corte ritiene esplicitamente essere del tutto equivalente a quello forense) e anche i 120 picogrammi in cui, diversamente dalla Vecchiotti, la professoressa Torricelli, consulente delle parti civili, ha quantificato la sostanza utile sulla nuova traccia.

In tutto questo trionfo di argomentazioni tecniche nell’ambito di un giudizio di legittimità, si dice pure che il verbale in cui la Vecchiotti giunse alla conclusione di non procedere al test, non venne “ovviamente” sottoscritto dai consulenti del Procuratore Generale e delle parti civili, punto seccamente contestato da Sollecito dopo la pubblicazione della motivazione e di cui magari sentiremo riparlare nel prossimo processo.

Sono due i punti però sui quali possiamo fondare una valutazione critica.

Innanzitutto, cos’è una “moderna tecnica di analisi sperimentata”, alla quale, secondo la Suprema Corte, la nuova traccia dovrebbe essere sottoposta?

Sono i mezzi di cui parla Novelli con i loro 8-10 picogrammi di sensibilità di soglia, magari usati abitualmente sugli embrioni, ma che non sembra siano altrettanto consolidati in campo forense, o sono quelle tecniche sulle quali c’è ampio consenso in quella parte della comunità scientifica più specificamente dedicata alle analisi forensi?

Un’altra sentenza della Corte di Cassazione, ritenuta importante in anni recenti, la cosiddetta Cozzini (43786/2010), si esprime nel modo seguente su come trattare teorie scientifiche (e tali si possono considerare anche le teorie sui metodi da applicare all’analisi delle tracce di DNA) in contrasto tra loro (pag. 35):

“D'altra parte, in questo come in tutti gli altri casi critici, si registra comunque una varietà di teorie in opposizione. Il problema è, allora, che dopo aver valutato l'affidabilità metodologica e l'integrità delle intenzioni, occorre infine tirare le fila e valutare se esista una teoria sufficientemente affidabile ed in grado di fornire concrete, significative ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l'argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato. In breve, una teoria sulla quale si registra un preponderante, condiviso consenso.”

E decisamente dalla letteratura presentata nella motivazione di secondo grado la teoria di non testare se non si poteva procedere ad un’amplificazione multipla pareva quella con il maggior consenso da parte della comunità scientifica.

La Prima Sezione Penale nella presente sentenza ha invece adottato una logica del tipo “prima si testa e poi si discute”: benissimo, ne vedremo i frutti al processo di Firenze.

E proprio ricollegandoci al prossimo processo veniamo a trattare il secondo elemento di analisi critica, ovvero il famoso coltello come arma del delitto.

Cominciamo facendo notare che c’è un intero capitolo nella sentenza di secondo grado riguardante tale coltello e trattante tutti i motivi per cui, a prescindere dalle analisi genetiche, tale strumento risulta molto improbabile nel ruolo dell’arma che ha ucciso Meredith Kercher.

Tutti questi elementi (la poca o nulla compatibilità con le ferite, la presenza di amido, l’improbabilità della spiegazione con cui la corte di primo grado ha giustificato la sua presenza in Via della Pergola la notte dell’omicidio, etc.) non sono stati oggetto di contestazione da parte della Procura Generale di Perugia nel suo appello e di conseguenza non sono stati neppure trattati dalla Suprema Corte nella presente sentenza.

Si desume quindi che tali argomenti mantengano intatta la loro efficacia anche nel nuovo processo.

In questo senso questo autore si sente di criticare il fatto che la Suprema Corte abbia definito la nuova traccia un elemento “di portata non solo significativa ma decisiva”.

Ovviamente la Suprema Corte era obbligata a definire tale prova come “decisiva” per poter invocare l’articolo 606 sezione d) c.p.p e giustificare il ricorso della Procura su questo punto, tuttavia lo scrivente contesta che si possa definire “decisivo” il test sulla traccia 36I quando molti altri elementi di prova di senso contrario possono renderla al più un elemento di prova contraddittorio ma non decisivo.

Detto questo, e ammetto di aver compiuto un atto di presunzione a pormi sullo stesso piano della Corte di Cassazione, anche accettando la definizione della traccia 36I come “decisiva”, se la si testa e viene fuori che non appartiene a Meredith Kercher, che succede?

Si assolve automaticamente perché l’elemento “decisivo” è andato a sfavore dell’accusa e a favore della difesa?

Sarebbe troppo ingenuo credere in un tale automatismo, tuttavia questo punto verrà trattato nuovamente, in un più ampio contesto, nell’analisi del capitolo finale, il quattordicesimo.


Capitolo 12 – Indagini genetiche.

Il capitolo comincia criticando la corte d’appello di Perugia per aver “supinamente recepite le indicazioni dei periti [Conti e Vecchiotti], quanto alla mera inadeguatezza delle indagini condotte dalla Polizia Scientifica” per poi affermare che in sede di motivazione non è stato tenuto conto delle motivate obiezioni dei professori Novelli e Torricelli, consulenti del Procuratore Generale e delle parti civili.

Questo primo insieme di obiezioni introduce una questione di metodo che impatterà sicuramente sul nuovo processo, ma anche ben al di là di questo, sfociando probabilmente in un dibattito internazionale.
Sostanzialmente la Suprema Corte aderisce alle obiezioni di Novelli e Torricelli sulla stretta aderenza ai protocolli, propugnata invece da Conti e Vecchiotti.

I supremi giudici sembrano infatti concorrere con Novelli che “aveva convenuto che esistono protocolli e raccomandazioni, ma aveva aggiunto che prima di tutto doveva concorrere l’abilità dell’operatore ed il suo buon senso, pena la messa in discussione di tutte le analisi del DNA fatte dal 1986 in avanti” e con la Torricelli che “aveva puntualizzato come a detti protocolli necessariamente è consentito derogare, proprio in ragione della particolarità dei singoli casi”.

Su questo argomento lo scrivente si sente costretto a spendere qualche parola, avendo una formazione universitaria nel campo delle scienze fisiche che pur se persa nella notte dei tempi in quanto ai dettagli, gli ha lasciato almeno qualche ricordo sui metodi.

Sarà forse perché la fisica non è la biologia, ma sono assolutamente certo di non aver mai sentito dire nel contesto dell’ambito sperimentale che “prima di tutto devono concorrere l’abilità dell’operatore ed il suo buon senso”, avendo sempre ricevuto l’insegnamento che la validità di una misurazione scientifica deve dipendere dai metodi seguiti e dagli strumenti impiegati ma non dalle qualità individuali dell’individuo che la esegue, anche perché è requisito fondamentale che essa sia ripetibile da chiunque possieda analoghi strumenti e segua gli stessi protocolli.

Si ricava invece dalla lettura di queste pagine, ma in realtà da tutta la diatriba sulle indagini genetiche in questo processo, la sensazione che in questo campo ci si trovi di fronte più ad un’arte (dove molto dipende dall’ ”operatore”) che ad una scienza esatta (dove il risultato deve essere indipendente dall’ “operatore”), almeno per quel che riguarda la determinazione e l’attribuzione dei profili genetici, essendo evidente dalla lettura degli atti processuali che molto viene lasciato all’interpretazione dei singoli “operatori”.

Orbene, se questo è lo stato  delle cose nella genetica forense non ci si può che adeguare ad esso, tuttavia deve essere ben chiaro, soprattutto ai giudicanti, togati e popolari indifferentemente, che, contrariamente a quanto mostrato in numerose serie televisive estremamente popolari, non ci sono macchine in cui si inserisce il campione e da cui esce, dopo rigorosa analisi matematica, la foto del sospettato, bensì una serie di interpretazioni individuali con ampio margine di soggettività.

Questo è molto importante perché oggigiorno le giurie hanno una fede pressoché assoluta nel valore della “prova regina”, ovvero il DNA, immaginando confusamente però, il più delle volte, che l’attribuzione di un profilo genetico segua gli stessi passaggi della risoluzione di un’equazione matematica, il che sicuramente non è vero e questo dovrebbe essere chiarissimo ai giudicanti.

Forse ancora più importante è l’aspetto trattato subito dopo dalla Suprema Corte in questo capitolo,

ovvero quello della contaminazione, sul quale citiamo estesamente le parole dei supremi giudici:

“L’aspetto ancora più sorprendente è stato quello di recepire senza alcun senso critico, la tesi sostenuta dai periti sulla possibile contaminazione dei reperti, tesi del tutto disancorata da un dato scientifico idoneo ad accreditarla concretamente. L’ipotesi indimostrata di una contaminazione è stata assunta quale assioma, […] laddove i dati acquisiti non consentivano di addivenire a simili conclusioni. Era stata esclusa anche dagli stessi periti [quali? Conti e Vecchiotti?] la contaminazione da laboratorio. Il professor Novelli disse che della contaminazione deve essere dimostrata l’origine, il veicolo”.

Viene poi fatto una lunga citazione di elementi che dimostrerebbero l’assenza di contaminazione in laboratorio, ma visto che nella sentenza di secondo grado era stata ritenuta ben maggiore una probabilità di contaminazione nella fase di refertazione (Hellmann pag. 89-93), si procede a negare pure questa.

Innanzitutto, poiché nella sentenza di secondo grado si era fatto riferimento alla presenza del DNA di Sollecito su di un mozzicone di sigaretta, viene addirittura ridicolizzata la possibilità che tale DNA sia “trasmigrato” sul gancetto del reggiseno di Meredith Kercher, senza però considerare che per la sentenza di secondo grado quello era solo un esempio: “ma il DNA di Sollecito era certamente presente nel resto della casa, tanto da essere stato rilevato, per esempio, su un mozzicone di sigaretta, né potendosi escludere su altri oggetti non repertati” (Hellmann pag 93).

Ancor più lacunosa appare poi l’assenza di ogni riferimento alla presenza di altri profili maschili sul gancetto di reggiseno, che nel processo di secondo grado era stato ritenuto uno degli elementi chiave a favore della contaminazione.

Si potrebbe anche dire che nessun test quantitativo su possibilità di contaminazione per trasferimento multiplo è mai stato effettuato dalla Polizia Scientifica nell’ambito di questo caso (e forse in nessun caso).
Ma lasciando ora da parte questioni tecnicamente sofisticate (e che peraltro competono più al giudizio di merito che a quello di legittimità), dobbiamo ora volgere la nostra attenzione ad una serie di affermazioni ed argomentazioni che saranno certamente fonte di conseguenze, anche ben oltre i confini nazionali.

Prima affermazione:

“Né poteva essere affermato, come fu, che nel tempo intercorso tra il primo sopralluogo ed il secondo, compiuto a distanza di più di quaranta giorni, presso la casa locus commissi delicti, ‘vi avessero tutti scorrazzato’, visto che alla casa furono apposti i sigilli ed in detto intervallo nessuno ebbe l’opportunità di accedervi, come risulta dai dati processuali.”

Premesso che Sollecito, dopo aver letto la motivazione ha pubblicamente affermato che i dati processuali indicherebbero proprio l’opposto, cosa che sicuramente sarà approfondita nel nuovo processo, quello che si vuol far notare qui è che i filmati girati durante il secondo sopralluogo mostrano uno stato dei luoghi totalmente diverso da quello che si vede nei filmati dei primi giorni.

Chi sia stato e quando ovviamente i filmati e le foto non lo dicono, ma che sia successo è evidente ed era stato infatti detto nella sentenza di secondo grado che “è certo che tra il sopralluogo della Polizia Scientifica, nella immediatezza della scoperta del delitto, e il secondo sopralluogo della stessa Scientifica del 18 dicembre, la casa di Via della Pergola fu oggetto di più perquisizioni, dirette a ricercare eventuali altri elementi utili per le indagini, nel corso delle quali la casa venne messa a soqquadro, così come documentato anche dalle fotografie proiettate dalla difesa degli imputati ma realizzate dalla stessa Polizia. E queste perquisizioni vennero comprensibilmente effettuate senza le cautele che accompagnano le indagini della Scientifica, nella convinzione che ormai, comunque, i reperti da sottoporre ad indagini scientifiche fossero stati acquisiti.” (Hellmann pag. 90-91)

Seconda affermazione:

“i dati obbiettivi raccolti deponevano per l’assenza di evidenze (già messa in luce nella sentenza di primo grado da pag 281 in avanti, in cui si fece riferimento alla video registrazione delle operazioni di refertazione avvenute con le cautele da protocolli della polizia scientifica, adusa ad interventi di questa natura) accreditanti l’ipotesi della contaminazione”

Tra tutte le cose i supremi giudici dovevano citare proprio quei video che nell’udienza del 25/07/2011 il professor Conti esaminò in aula passo passo, evidenziandone le discrepanze rispetto a quelle che avrebbero dovuto essere le procedure seguite.

Ora, mentre su alleli, stutter e tante altre questioni riguardanti la profilazione del DNA, la gran massa del pubblico è totalmente ignorante e non può che rimettersi agli esperti, chiunque abbia gli occhi non può non vedere se non si usano le pinzette quando si dovrebbe o se non ci si cambiano i guanti quando sono sporchi o se non si vestono gli appropriati indumenti anti contaminazione quando si dovrebbe.

E’ evidente nell’affermazione citata sopra una certa volontà di tutelare il buon nome della Polizia Scientifica, aspetto evidente anche nelle argomentazioni del sostituto PG Riello all’udienza, tuttavia mi chiedo se si pensa di fare un grande favore a questi servitori dello Stato negando in assoluto che ci siano stati errori anche dove essi sono evidenti e visibili da tutti senza necessità di alcuna formazione specialistica.

Perché è ben noto che tali immagini hanno già fatto il giro del mondo una volta ed è certo che lo rifaranno una seconda volta durante il nuovo processo e c’è da chiedersi se in tale contesto, particolarmente all’estero, le parole “operazioni di refertazione avvenute con le cautele da protocolli della polizia scientifica, adusa ad interventi di questa natura” non verranno interpretate come “questo è quello che fanno di solito e perciò bisogna accontentarsi”.

Terza affermazione:

“La corte di secondo grado ha condiviso la tesi della probabile contaminazione avanzata dai periti, basata sul ‘tutto è possibile’, che non è un argomento spendibile […]: il veicolo di contaminazione andava individuato […] non bastava ipotizzare un’insufficiente professionalità degli operatori nella refertazione […] ma soprattutto si è fondato sulla erronea convinzione che incombesse sull’accusa dimostrare l’assenza di agenti contaminanti, laddove i dati […] si basavano […] su un’attività di refertazione compiuta sotto gli occhi dei consulenti di parte che nulla ebbero a rilevare. Tale quadro era tale da poter accreditare una correttezza di procedura che faceva inevitabilmente ricadere su chi lo volesse sostenere, l’onere di individuare e dimostrare il fattore contaminante […] La confutazione della prova scientifica doveva quindi, per forza di cose, passare attraverso la dimostrazione delle circostanze di fatto specifiche e concrete, accreditanti l’asserita contaminazione.”

Allora, per prima cosa la tesi della contaminazione non si basa sul “tutto è possibile” (frase del professor Conti già citata nell’appello Galati e totalmente estrapolata dal contesto in cui fu pronunciata) ma, come argomentato dalla sentenza di secondo grado, è basata sulla letteratura in materia e sull’esame delle prove visive.

In secondo luogo, a prescindere dagli ulteriori sopralluoghi di cui si è detto sopra, di sicuro l’attività di refertazione svolta dal pomeriggio del due fino alla mattina del sei novembre, non fu svolta sotto gli occhi dei consulenti di parte, per il semplice fatto che tecnicamente non c’erano indagati e quindi nemmeno loro consulenti.

Infine per quello che riguarda l’asserzione che la contaminazione vada provata, che ne vada identificato il veicolo e quindi la dettagliata meccanica, in opposizione al concetto della corte di secondo grado, nel corso del 2012 apprezzato su siti e riviste giuridiche italiane, secondo il quale il mancato rispetto dei protocolli che prevengono la contaminazione è sufficiente come prova di avvenuta contaminazione, ebbene qui certamente si genererà una grossa contesa, sui media certamente, ma anche a livello giuridico.

Tale affermazione potrebbe essere infatti la base per un ricorso al Tribunale di Strasburgo sulla base dell’articolo 6 comma 3 lettera b) della CEDU, che dice che “ogni accusato ha diritto di … disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa”: infatti se è richiesto all’accusato di provare in dettaglio l’avvenire della contaminazione ed egli è privato non solo del controllo completo della scena del crimine, ma anche di fonti audiovisive che documentino gli atti di tutti gli operatori in ogni momento e da più angolazioni, nonché della possibilità di effettuare in proprio prelievi ed analisi per documentare tali trasferimenti contaminanti, allora l’accusato è privato delle “facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa”.

Non si tratta tanto di inversione dell’onere della prova, bensì del negare gli strumenti necessari a sostenere tale onere.

Tutto ciò è tanto più vero se si considera che le riprese video, a prescindere dal numero e dalla qualità, non sono nemmeno un obbligo per la legge italiana e che comunque la refertazione avviene nella maggior parte dei casi prima che ci siano degli accusati e quindi prima che essi possano in modo diretto od indiretto avere un controllo sulla scena del crimine, anche qualora la legge desse loro questa facoltà.


Capitolo 13 – Analisi delle impronte e delle altre tracce.

Questa sezione si occupa, piuttosto sommariamente rispetto alla più lunga e accurata trattazione presente nella sentenza di secondo grado, tanto delle impronte di piede rilevate con il luminol e ritenute dall’accusa (e dalla sentenza di primo grado) impresse con il sangue della vittima che delle tracce di sangue repertate nel bagno piccolo.

Oltre a essere sommaria, l’analisi della Suprema Corte verte quasi esclusivamente su due elementi secondari e alquanto periferici nell’economia della sentenza annullata.

Dopo aver infatti ammesso che la valutazione dell’impronta sul tappetino del bagno come non attribuibile a Sollecito non è sindacabile in questo contesto trattandosi di un profilo valutativo, la Suprema Corte censura però la sua attribuzione a Guede.

Per quanto gli argomenti che i supremi giudici spendono a questo proposito non manchino di una certa logica, non per questo quelli della corte d’appello sono “contro ogni evidenza”, come invece sostenuto dalla Suprema Corte, la quale poi, nel corso di tali argomentazioni, oltre ad assumere apparentemente che la corte di secondo grado abbia fatto confusione tra impronte palmari e di scarpe del Guede, cosa non vera, torna a basarsi pesantemente sulle conclusioni della sentenza riguardante Guede, ancora una volta dando per scontato che le impronte dell’ivoriano indichino un’uscita diretta, senza deviazioni dalla casa e ancora una volta ribadendo che Guede agì “in concorso con altri, così come è stato affermato nella sua sentenza di condanna”.

Ma a prescindere da tutti questi dettagli, l’attribuzione dell’impronta sul tappetino a Guede è un puro fattore accessorio nel contesto di un processo dove l’imputato interessato è Sollecito e dove quello che veramente conta e che non si possa attribuire a lui tale impronta.

Ma il punto più dubbio non solo di questa sezione ma forse di tutta la sentenza viene toccato a proposito delle impronte evidenziate dal luminol: innanzitutto si trascura di dire che solo due di esse hanno dato un profilo misto Knox-Kercher (anzi, si afferma erroneamente che esso è misto in tutte e trascurando completamente il fatto che fossero tracce di DNA Low Copy Number, come invece evidenziato dalla corte d’appello), ma soprattutto si afferma apoditticamente “il luminol evidenzia tracce di sangue e non era davvero ipotizzabile che la Knox avesse avuto i piedi imbrattati di sangue della vittima in precedenti occasioni.”

Tale frase, a parte il cattivo gusto da battuta macabra, certamente involontario, riprende un’affermazione simile presente nell’appello Galati, dove però almeno ci si era preoccupati di dire che il luminol “esalta principalmente le tracce di sangue”, mentre nella versione della Suprema Corte ogni precisazione è sparita e sembra che il luminol reagisca solo ed unicamente con il sangue.


Cosa palesemente non vera.

Non si può inoltre non notare che la Suprema Corte, che in questo capitolo riprende con ampie citazioni la sentenza di primo grado per descrivere quali atti la Knox avrebbe compiuto per lasciare non solo queste impronte insanguinate, ma anche svariate altre tracce di sangue nel bagno piccolo, trascuri totalmente quello che invece era elemento fondamentale delle ragioni assolutorie della sentenza di secondo grado, ovvero la negatività delle presunte impronte insanguinate al test della tetrametilbenzidina (TMB), definito dalla corte di secondo grado “molto sensibile,  tanto da riuscire positivo anche in presenza di soli cinque globuli rossi. La stessa dottoressa Stefanoni, inoltre, ha chiarito (udienza preliminare del 4 ottobre 2008) che mentre l’esito positivo dell’esame potrebbe essere ingannevole in ragione della reattività dell’evidenziatore anche ad altre sostanze, l’esito negativo dà certezza sull’assenza di sangue.”

Senza entrare in disquisizioni tecniche sull’effettiva sensibilità del TMB rispetto al luminol, quello che si vuole sottolineare qui è che tale aspetto fondamentale (non messo in questione neppure nell’appello Galati) non viene minimamente affrontato, neppure per confutarlo, da parte della Suprema Corte, che però scrive all’inizio di questo capitolo di ritenere fondate “le censure avanzate in termini di manifesta illogicità della motivazione, quanto ai criteri di valutazione in materia genetica”.

Allo stesso modo nulla si dice, neppure per confutarle, delle obiezioni mosse dalla sentenza di secondo grado al modo in cui vennero campionate le cosiddette tracce miste nel lavandino o nel bidet e neppure nulla si dice, nemmeno per confutarla, sull’ovvia considerazione che la presenza del DNA di Kercher e Knox sui sanitari che usavano insieme sia cosa del tutto naturale.

La Suprema Corte conclude poi il capitolo con un’operazione che non può che sollevare forte perplessità nello scrivente: essa eleva un’argomentazione del tutto secondaria della corte di secondo grado a fulcro delle motivazioni di questa, per poi demolirla.

L’argomentazione è quella che nel bagno piccolo non vennero evidenziate tracce di Sollecito e la Suprema Corte, riprendendo la sentenza di primo grado, la “smonta” affermando che egli potrebbe essersi lavato nel vano doccia con abbondanza d’acqua.

Ma il punto critico è che quest’argomentazione è nella sentenza di secondo grado poco più che un’appendice conclusiva, una piccola nota finale, mentre nella sentenza della Cassazione viene fatta passare come l’unica risposta della corte d’appello al problema delle tracce miste rinvenute nel bagno, cosa che certamente non fu, perché altre furono le risposte, queste sì ignorate dalla Suprema Corte, come si è detto sopra.


Capitolo 14 – Le dichiarazioni della Knox (e conclusioni).

L’ultimo capitolo della sentenza inizia affermando che non sono state prese in dovuta considerazione alcune dichiarazioni (o atti, come una telefonata) di Amanda Knox che potrebbero costituire elemento indiziario a suo carico in quanto indicanti una conoscenza dei particolari dell’omicidio che essa non avrebbe dovuto possedere se innocente.

In particolare si ritorna ancora una volta su quanto Amanda Knox avrebbe detto in Questura nel pomeriggio del 2 novembre alle amiche inglesi della vittima e cioè “che il cadavere dell’amica l’aveva trovato lei, che era davanti all’armadio, che era coperto da una trapunta, che spuntava fuori un piede, che le avevano tagliato la gola e che c’era sangue dappertutto, laddove nel suo interrogatori del 13/6/2009, aveva escluso di aver visto alcunché.”

La prima consistente imprecisione è che la Knox in realtà disse che il cadavere dell’amica era stato ritrovato dentro un armadio (il fatto è riportato correttamente nell’appello Galati), cosa che già dimostra quanto tale presunta conoscenza fosse indiretta e derivante da sentito dire. Il dire “l’ho trovato io” è interpretabile come un’approssimazione per “ero presente al ritrovamento”, mentre il taglio alla gola e il sangue sono dettagli facilmente appresi dalle altre persone presenti, che tali dettagli videro e con le quali la Knox venne lasciata tranquillamente a conversare per un’ora fuori dal villino prima di andare in Questura. In aggiunta a tutto ciò il trasferimento in Questura avvenne sulla macchina di due altri testimoni presenti al ritrovamento con i quali avvenne ulteriore travaso di informazioni.

Queste sono evidenti obiezioni che dovrebbero emergere chiaramente e facilmente nel nuovo processo, anche se in realtà avrebbero già dovuto essere abbondantemente chiare a questo punto.

Infine la Suprema Corte riprende il tema della telefonata fatta dalla Knox a sua madre alle ore 12.47 italiane del 2 novembre, notte fonda a Seattle, della quale sottolinea il valore potenzialmente indiziario sia per l’orario sia perché a suo dire la Knox in sede di interrogatorio fu reticente o poco chiara su di essa e infine perché avvenne prima delle telefonate di Sollecito ai Carabinieri.

Ancora una volta le motivazioni della Suprema Corte destano profonda perplessità nello scrivente: “la sottovalutazione della circostanza non è questione di pura valutazione, se solo si consideri che ancora una volta i dati non sono stati correttamente recepiti dai flussi informativi, avendo ritenuto il Collegio di secondo grado che si fosse trattato di telefonata in contemporanea con quella che il Sollecito fece dapprima al 112 e poi alla sorella [in realtà avvenne il contrario]. In realtà agli atti risultava che la prima a manifestare inquietudine la mattina del 2/11/2007 fu sicuramente la Knox che telefonò alla madre cogliendola in piena notte, che il Sollecito tre minuti dopo chiamò la sorella”.

Dunque per la Suprema Corte tre minuti di differenza rendono tali telefonate non in contemporanea: mentre la cosa è vera in senso letterale, tuttavia era evidente nella motivazione di secondo grado che si parlava di un crescendo di preoccupazione nel cui contesto avvengono a breve distanza le une dalle altre le suddette telefonate e non si può credere che i supremi giudici di questa nazione non siano in grado di capirlo.

Infine, terminato l’esame delle manchevolezze della sentenza annullata, la suprema corte fornisce quelle che potrebbero essere definite “indicazioni” alla prossima corte giudicante:

“Il giudice del rinvio dovrà quindi porre rimedio, nella sua più ampia facoltà di valutazione, agli aspetti di criticità argomentativa, operando un esame globale ed unitario degli indizi, esame attraverso il quale dovrà essere accertato se la relativa ambiguità di ciascuno elemento probatorio possa risolversi, poiché nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri. L’esito di tale valutazione osmotica sarà decisiva non solo a dimostrare la presenza dei due imputati nel locus commissi delicti, ma ad eventualmente delineare la posizione soggettiva dei concorrenti del Guede, a fronte del ventaglio di situazioni ipotizzabili, che vanno dall’accordo genetico sull’opzione di morte, alla modifica di un programma che contemplava inizialmente solo il coinvolgimento della giovane inglese in un gioco sessuale non condiviso, alla esclusiva forzatura ad un gioco erotico spinto di gruppo, che andò deflagrando, sfuggendo al controllo.”

A parte le questioni “osmotiche”, che lasciamo volentieri alla chimica, queste “direttive” mantengono almeno una parvenza d’imparzialità, in esse infatti non si dà per scontata la presenza dei due imputati sulla scena del crimine, anche se questo lo si capisce quasi solo da quel “eventualmente” messo prima di dell’elencazione delle possibili “situazioni soggettive”, ovvero più o meno dei possibili livelli di responsabilità degli imputati se la loro presenza sul luogo del delitto risultasse certa agli occhi dei nuovi giudici.

Bisogna però dire che il tono tutto della sentenza, con la critica pressoché totale della sentenza di secondo grado, l’accettazione quasi completa del ricorso della Procura, le cui argomentazioni vengono spesso riproposte in maniera quasi letterale e gli apprezzamenti più volte espressi verso la sentenza di primo grado, non lascia molto spazio per un’interpretazione positiva da un punto di vista innocentista.

Perciò se si vuole usare questa sentenza come chiave di lettura per i possibili esiti del prossimo processo, il modo più immediato di farlo è di esaminare i tre possibili scenari di condanna che essa delinea.

Il primo, l’accordo “genetico” sull’opzione di morte, usa un’espressione un po’ enigmatica per definire quello che potrebbe essere uno scenario con premeditazione, una tesi abbandonata già durante il secondo processo, se non addirittura durante il primo, e che quindi è difficile che riveda la luce nel nuovo processo d’appello.

Il secondo, la modifica di un programma che inizialmente contemplava solo un gioco sessuale non condiviso dalla giovane inglese, potrebbe essere una riedizione, riveduta e corretta dello scenario prospettato dalla motivazione di primo grado, forse addirittura alleggerito come responsabilità, visto che i supremi giudici, che si suppone ben conoscano il valore delle parole in un contesto penale, non usano i termini “stupro” o “violenza sessuale”, ma solo “gioco sessuale”.

Il terzo infine, l’esclusiva forzatura ad un gioco erotico, potrebbe prospettare una partecipazione semplicemente passiva dei due imputati all’atto omicidiario, ovvero essi erano presenti ma non vi presero materialmente parte, mentre misero in seguito in atto attività depistanti perché avevano paura di essere considerati colpevoli anche dell’omicidio.

Sorprende un po’ che in due casi su tre si riproponga quel “gioco erotico” che, sebbene considerato elemento quasi certo nelle fasi iniziali del caso, nel corso degli anni e dei processi era apparso sempre più improbabile.

Giunti al termine di questa lunga analisi, rammentiamo quindi quanto si era detto sul fatto che la Suprema Corte avesse apertamente descritto Guede come protagonista principale e gli appunti fatti sul coltello nei commenti all’undicesimo capitolo.

La traccia 36I del coltello verrà probabilmente testata e se darà esito negativo per il profilo di Meredith Kercher, o anche solo un risultato inconclusivo (ci sono indicazioni nella relazione Conti-Vecchiotti che si tratti di una mistura di DNA maschile e femminile), il probabile effetto sarà quello di far escludere il famoso coltello come arma del delitto: questo assieme al ruolo da protagonista attribuito dalla Suprema Corte a Guede, potrebbe far retrocedere Knox e Sollecito a colpevoli di reati secondari anche in caso di condanna. 


Ringraziamenti

Voglio ringraziare Clive Wismayer e Rose Montague per i preziosi suggerimenti fornitimi.

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