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Knox e Sollecito: analisi di una condanna
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Corte d'assise d'appello di Firenze
Knox e Sollecito: analisi di una condanna
di Luca Cheli

Introduzione

Come dovrebbe essere oramai noto, sono un fermo sostenitore dell’innocenza di Knox e Sollecito, tuttavia lo ripeto qui ancora una volta per tutti quei lettori che dovessero essere nuovi del caso. Ovviamente sono italiano e quindi quello che dico a proposito di alcune realtà italiane deriva da esperienza personale, certamente soggettiva e limitata, ma pur sempre un’esperienza vissuta e non una realtà mediata da libri.

Aggiungo a fini di chiarimento che quando attribuisco parole, pensieri ed intenzioni ad un personaggio chiamato “Nencini”, mi sto riferendo ad un’entità che rappresenta la motivazione della sentenza come se potesse essere personificata in un individuo di nome “Nencini” e non direttamente al Giudice Alessandro Nencini, poiché una motivazione è solitamente scritta dai due giudici togati, ma può anche riflettere il pensiero dei sei giudici popolari, perciò è impossibile sapere chi ha veramente partorito una parte di essa.
Stessa cosa per quel “Giudice” a cui talvolta mi rivolgo direttamente.

Possiamo ora cominciare quest’analisi della motivazione del processo di appello di Firenze, seguendo capitolo per capitolo la struttura della parte della motivazione riguardante i “Motivi della decisione” (pagine da 32 a 337).


1 - Premessa

La motivazione comincia con una premessa che tratta dell’ambito e dello scopo del processo (la pagina 73 della sentenza della Cassazione che ha annullato l’assoluzione è citata in maniera praticamente integrale) e della rilevanza che il giudizio definitivo riguardante Rudy Guede può avere o meno nel processo a Knox e Sollecito.

Nencini considera “generale ed astratta” la valutazione di Hellmann che il processo a Guede, essendo “stato celebrato con il rito abbreviato, cosicché i Giudici che hanno conosciuto della posizione di Rudi Guede non hanno potuto disporre, nonostante la particolare complessità del caso, almeno per quanto riguarda la posizione degli attuali imputati, né delle acquisizioni dell’istruttoria dibattimentale di primo grado, né di quelle del presente grado, ed in particolare dei risultati della perizia espletata” (Hellmann, pagina 27) e afferma di condividere invece di aderire alla posizione espressa dalla Corte di Cassazione nella sentenza 7993/2012.

Il succo della posizione di Nencini è espresso al meglio dal seguente paragrafo (pagina 36):
“In conclusione, se in punto di diritto questo Giudice del rinvio manifesta adesione al principio sopra indicato, condividendone il portato precettivo, in punto di fatto la presenza di un accertamento con carattere di definitività della attribuibilità dell’omicidio di Meredith Kercher ad un preciso colpevole, Rudi Hermann Guede, in concorso con altre persone, rende indefettibile l’assunto che ogni valutazione di merito da svolgere in relazione al compendio indiziario emergente dagli atti del presente giudizio dovrà essere effettuata avendo come imprescindibile punto di riferimento l’accertamento giudiziale indicato, e quindi confrontandosi con il dato processuale definitivo che Rudi Hermann Guede fu partecipe, assieme ad altri, del delitto di Meredith Kercher."

Il linguaggio non è semplicissimo e quindi non facile da “decodificare”, comunque si può ottenere la mia interpretazione mettendo assieme le parti in grassetto: parlano da sole.


2 - Il contesto in cui avvenne l’omicidio. Cause ed orario della morte di Meredith Kercher

Il villino di Via della Pergola viene sommariamente descritto e una mappa del piano di sopra è usata per riferimento. C’è anche un riassunto degli eventi immediatamente precedenti la scoperta dell’omicidio. Viene data una certa rilevanza al ben noto disaccordo tra la Knox e la coinquilina Romanelli a proposito del fatto che la Kercher chiudesse o meno abitualmente la porta della propria stanza (bisognerebbe poi sapere che verbo usò la Knox: “to lock” per chiudere a chiave o “to close” per semplicemente chiudere senza chiave? A nessun testimone venne chiesto quale fosse stata l’esatta parola impiegata dalla ragazza americana).

Si fa anche riferimento per la prima volta ad un elemento che assumerà poi una ben maggior rilevanza più avanti nella motivazione, ovvero che nessuna testimonianza rende conto della posizione di Sollecito all’atto dello sfondamento della porta.

Viene poi detto due volte che il fatto che gli imputati non fossero in una posizione tale da permettere loro di vedere all’interno della stanza sarà oggetto di analisi “in seguito” -- in realtà non ci sarà ulteriore menzione di ciò nella motivazione: forse qualcuno si è reso conto che la supposta “conoscenza sospetta” di dettagli della scena del crimine da parte della Knox proveniva da Luca Altieri, ma si è dimenticato di cancellare quelle righe.

Segue quindi una lunga descrizione della posizione in cui il corpo venne ritrovato e delle ferite ed ecchimosi che presentava, tra loro “tre ferite superficiali scarsamente intrise di sangue, e un’area di ecchimosi delle dimensioni di 2 cm” sul palmo della mano destra (pagina 46).
Poi abbiamo un sommario di tutti i rilievi della Polizia Scientifica effettuati il giorno 2 novembre 2007: tra loro, a pagina 47, c’è un riferimento a “tre tracce plantari, con segni circolari concentrici, lasciate per deposizione ematica. Trattasi all’evidenza di orme di piedi privi di scarpa”. Se si trattava veramente d’impronte insanguinate di piedi nudi, non se ne trova ulteriore riferimento nella sentenza, se non fugacemente e senza sviluppo a pagina 62.

Nencini affronta poi la causa della morte della Kercher, affermando che “ritiene quindi questa Corte che la ragazza fu colpita con un coltello nel mentre la stessa veniva tenuta immobilizzata, e con compressione all’altezza della bocca per impedirle di urlare. E’ ragionevole ritenere che ad un certo punto la ragazza, nel corso dell’aggressione, riuscì a liberare il volto dalla contenzione, e ad emettere un urlo (di cui si avrà modo di riferire più oltre), e tale condotta fu probabilmente la ragione del colpo inferto alla gola che provocò la frattura dell’osso ioide con la conseguente dispnea, e il travaso dello stesso sangue della vittima nei polmoni che ne cagionò l’asfissia” (pagina 49).

In se stessa un’affermazione che non comporta necessariamente la presenza di aggressori multipli. Non ancora.

A proposito dell’ora della morte, Nencini non si dimostra particolarmente preoccupato: ”dalle 21.30 circa del 1° novembre 2007 alle ore 12.30 circa del 2 novembre 2007, nessuna emergenza istruttoria ha indicato che Amanda Knox e Raffaele Sollecito si trovassero altrove rispetto al luogo teatro dell’omicidio; ovvero in compagnia di persone che ne possano attestare la estraneità ai fatti”, dunque “l’eventuale accertamento dell’omicidio di Meredith Kercher in un’ora precisa della notte tra il 1° ed il 2 novembre 2007 piuttosto che in un’altra, avrebbe scarso rilievo nel complesso delle valutazioni indiziarie cui è chiamata questa Corte” (pagina 50).

Dunque una precisa sequenza temporale non ha importanza, perché in ogni caso gli imputati non hanno un alibi e quindi possono essere, loro e le loro azioni, liberamente spostati nel tempo come si fa con le pedine.

In realtà Nencini si mostra sempre molto restio a fornire precise indicazioni temporali: come poi vedremo è difficile capire dalla motivazione quando ebbero luogo la supposta pulizia della scena del crimine e la supposta simulazione d’effrazione e quanto durarono. In questo modo uno non deve preoccuparsi troppo di eventuali elementi in conflitto tra loro.

Ad ogni modo, dopo aver analizzato le risultanze autoptiche e avendo convenuto con “il medico legale” che l’esame del contenuto gastrico era “scarsamente attendibile” (pagina 51), Nencini usa le testimonianze delle amiche inglesi della vittima per stabilire che la Kercher era sicuramente viva fino alle 9 di sera e i tabulati telefonici per stabilire che dieci minuti dopo la mezzanotte del 2 novembre i suoi telefoni si trovavano nel giardino della villa dei Lana (in tutta la sentenza non viene fatto alcun riferimento alla chiamata delle 22.13 o alle tracce di attività intorno alle 22 recuperate dai telefoni), cosicché l’ora della morte può essere collocata con sicurezza (e ci mancherebbe) tra le 21 del 1° novembre e le 00.10 del 2 novembre (pagina 52 e di nuovo a pagina 57).

Avendo stabilito un intervallo a prova di bomba per l’ora della morte, Nencini si rivolge alle testimonianze di Capezzali, Monacchia, Dramis, Lombardo (l’autista del carroattrezzi) e Formica (la giovane donna il cui fidanzato venne urtato da un “uomo scuro” in corsa).

Il risultato dell’analisi è che le testimonianze non possono fornire un preciso riferimento temporale, cosa che comunque non ha importanza, ma che Capezzali e Monacchia (non però la Dramis) sono attendibili e cogenti e che è da ritenersi stabilito che l’urlo che esse udirono in un’ora tra le 23 e le 23.30 era effettivamente l’urlo mortale di Meredith Kercher e ciò perché esse si confermano vicendevolmente, entrambe vivevano vicino al villino ed entrambe sentirono “in un contesto sostanzialmente equivalente per quanto attiene all’orario” un forte grido di donna proveniente dalla zona dove si trova il villino. Questa circostanza è, inoltre, “compatibile con il lasso temporale in cui avvenne l’omicidio”.

E di sicuro, con un lasso temporale di tre ore per l’ora della morte, Nencini può bene, diversamente da Hellmann, non preoccuparsi di una differenza o di un’indeterminazione dell’ordine di una mezz’ora tra le sue “testimoni auricolari”.

Infine Nencini deve stabilire se ci sia stato o meno un unico aggressore, perché se può essere escluso che ce ne sia stato più di uno, dato che Rudi Guede è già stato definitivamente condannato, la motivazione dovrebbe concludersi qui.
Ma visto che siamo solo a pagina 58 di 337, è facile immaginarsi che Nencini non crede nella tesi del singolo assalitore.

Il primo motivo è la sua analisi delle ferite della vittima: nessuna seria ferita da difesa sulle sue mani, nessun DNA o tessuto sotto le sue unghie, mentre una ragazza giovane e atletica come Meredith Kercher avrebbe sicuramente opposto una fiera resistenza ad un singolo aggressore. In realtà, secondo Nencini, l’assenza di ferite da difesa prova che essa fu immobilizzata da più aggressori.

Se fu così, tuttavia, non è chiaro come si sia potuta procurare 46 ecchimosi e contusioni sul corpo mentre era immobilizzata da due uomini giovani e forti.

Per di più si trascura che “dai prelievi sub-ungueali era risultato solo il DNA della vittima. Trattavasi, peraltro, di un’unghia cortissima, che quindi, verosimilmente, non aveva potuto graffiare in modo significativo chi aggrediva (Massei, pagina 195).

Né Nencini sembra rendersi conto che in uno scenario del tipo “attacco alla sentinella” un singolo assalitore potrebbe essere arrivato silenziosamente alle spalle della vittima, attaccandola di sorpresa e portandole immediatamente il coltello alla gola. In una tale situazione non ci sarebbero state ferite da difesa, semplicemente perché il coltello sarebbe arrivato da dietro, non da davanti.

Secondo Nencini bisogna anche considerare che, poiché il DNA di Guede è stato trovato su di un polsino della felpa della vittima e così pure nella sua vagina, l’ivoriano aveva entrambe le mani “occupate”. Nencini ammette che tali contatti potrebbero essere avvenuti in tempi successivi (e per forza: il DNA di Guede è stato anche trovato sul reggiseno della Kercher e lui non ha tre mani), ma afferma che nonostante tutto Meredith Kercher avrebbe potuto, per quanto temporaneamente, liberare una mano e graffiare il suo aggressore.
Se però si trovava già con un coltello alla gola è dubbio che possa aver tentato un’azione difensiva, pur avendo una mano libera. In realtà proprio il tentativo di muovere il braccio libero avrebbe potuto provocare la prima coltellata.

Nencini procede sostenendo che la posizione delle ferite principali sul collo della Kercher è incompatibile con un solo aggressore, in quanto la vittima avrebbe dovuto ruotare di 180°, ma in realtà l’aggressore potrebbe aver semplicemente mosso il coltello attorno al collo della Kercher, ovvero averla fatta ruotare dopo la prima coltellata.

Non pretendo comunque di fornire una spiegazione definitiva della teoria del singolo aggressore: Ron Hendry né ha fornita una molto migliore nel suo libro “Single Attacker Theory Of The Murder Of Meredith Kercher” ed in diversi articoli disponibili su www.ingiustiziaperugia.org. Piuttosto voglio semplicemente dire che il ragionamento di Nencini non può essere considerato, come lui invece crede, una confutazione definitiva della teoria del singolo aggressore.

A maggior ragione visto che durante il primo processo, di sette periti che si sono espressi sulla possibilità che vi fossero uno o più aggressori, solo uno ha escluso il singolo aggressore sulla base delle prove forensi disponibili in merito alla vittima.

Ma Nencini ritiene di rafforzare il suo giudizio in favore dell’ipotesi di più aggressori attraverso le impronte insanguinate ritrovate nell’appartamento: quelle di Guede sono di scarpa ed escono direttamente dall’appartamento, mentre l’impronta sul tappetino del bagno piccolo è di un piede maschile nudo e ci sono pure tre impronte di piede nudo di dimensioni compatibili con quello di una donna nella stanza della vittima (questa è la seconda e ultima volta che si sentirà parlare di queste tre impronte: non verranno citate nel capitolo specificamente dedicato alle impronte).

Sulla base di questi soli elementi Nencini stabilisce a pagina 63 che “a giudizio della Corte furono più persone ad aggredire ed uccidere Meredith Kercher”.

Le argomentazioni di Nencini mi sembrano in realtà un po’ troppo poco per poter concludere definitivamente che ci siano stati più aggressori: Guede avrebbe potuto trovarsi con o senza scarpe in momenti diversi e le suddette impronte di piede di taglia femminile potrebbero anche essere state della Kercher (a parte che non vengono neppur menzionate nella perizia di Boemia e Rinaldi, periti dell’Accusa).


3 - Il post delictum

Sta di fatto che Nencini ha deciso che ci devono essere più aggressori e quindi passa ad esaminare il “post delitto” (ovvero quello che è successo dopo) per cercare di dare un volto ai complici di Guede.

A tal fine egli esamina l’alterazione della stanza della Romanelli (cioè l’effrazione simulata), l’alterazione della scena dell’omicidio (ovvero la “pulizia” della medesima) e il furto dei telefoni cellulari di Meredith Kercher.


L’effrazione simulata

Prima di analizzare questo punto estremamente controverso, fermiamoci per un attimo a celebrare l’ammissione di Guede nell’Olimpo di ladri e scassinatori. Infatti, dopo anni in cui molti si sono impegnati a negarne o sminuirne le capacità in tal senso, questa sentenza finalmente lo promuove: “Rudi Hermann Guede oltre ad avere una esperienza specifica nella introduzione nelle case altrui a scopo di furto (i suoi precedenti, richiamati in molti atti processuali, sono di per sé eloquenti) conosceva perfettamente la villetta” (pagina 73-74) e poi “Rudi Hermann Guede, sicuramente esperto nella introduzione negli immobili al fine di perpetrarvi furti” (pagina 74) e ancora “Rudi Hermann Guede, ladro esperto e scaltro” (pagina 78).

Le nostre più sentite congratulazioni.

Di fatto Nencini, per attribuire la simulazione a Knox e Sollecito, capovolge tutti gli stereotipi precedenti: la simulazione è infatti “maldestra” e “grossolana”, mentre un abile ladro e scassinatore come Guede sarebbe entrato in casa attraverso la terrazza o anche direttamente dalla porta principale (e per giunta facilmente).

Non solo questo, ma “risulta difficile immaginare un Rudi Hermann Guede che, penetrato all’interno dell’appartamento in cui poteva immaginare che gli occupanti tornassero da un momento all’altro, interrompa la ricerca degli oggetti da rubare per andare a fare i propri bisogni nel bagno” (pagina 79-80): Nencini ha una tale opinione di Guede come ladro professionista che non può concepire che possa interrompere il “lavoro” per qualsivoglia motivo.

Comunque Nencini non considera di fatto impossibile l’effrazione attraverso la finestra della stanza della Romanelli così come sostenuta dalle difese: semplicemente gli appare troppo complicata e (implicitamente) indegna di un professionista altamente efficiente come Rudi Guede (ma in seguito si contraddirà).

A prima vista si potrebbe obbiettare che se l’ingresso attraverso la stanza della Romanelli era troppo complicato e l’accesso dalla posta principale o dalla terrazza molto più semplice, avrebbe dovuto apparire tale anche a chi voleva mettere in atto una simulazione, ma evidentemente per Nencini questi sono pensieri per soli professionisti e Knox e Sollecito sono solo dilettanti (una retrocessione, particolarmente per la Knox).

L’altro elemento che spinge Nencini a giudicare simulata l’effrazione è la famigerata presenza di frammenti di vetro sopra i vestiti sul pavimento della stanza della Romanelli.

Su questo punto voglio dire qualcosa di più.

Prima di tutto, in base alle testimonianze di Battistelli e Romanelli in primo grado, i vetri sui vestiti erano “piccoli” e “pochi” e per di più erano sia sopra che sotto i vestiti e quale sarebbe la spiegazione di quelli al di sotto ne contesto di una simulazione?

Ma non è tutto. Diamo un’occhiata a pagina 34 della motivazione Massei (primo grado), nel punto in cui si parla delle (all’epoca) supposte precedenti effrazioni compiute da Rudi Guede:

“dallo studio [degli avvocati Brocchi e Palazzoli] furono prelevati degli oggetti, rinvenuti i vetri sopra gl’indumenti”.

E’ incredibile leggere questo nella motivazione di primo grado e pensare che siamo qui, quattro anni dopo la sua pubblicazione, ancora a discutere di “vetri sugli abiti” come prova fondamentale della natura simulata di un’effrazione.

E’ ancora più incredibile che ciò sia stato ignorato da coorti di giudici, inclusi quelli “supremi”.

Chi ha simulato quell’effrazione, onorevoli giudici?

Sì perché, se i vetri sopra i vestiti significano simulazione, allora anche quella nello studio degli avvocati doveva essere simulata, altrimenti dovremmo pensare, onorevoli giudici, che i vetri sopra gli abiti non provano niente e che noi (e voi) abbiamo speso anni a parlare del sesso degli angeli.

Oppure, seguendo l’alta opinione che ha Nencini di Guede come ladro professionista, potremmo pensare che sia stato così intelligente da spargere di proposito un po’ di vetri rotti sopra i vestiti al fine di depistare gl’inquirenti, i quali avrebbero subito pensato ad una simulazione.

Un appunto: a pagina 80 si legge “se a queste osservazioni si aggiunge la circostanza, che questa Corte ritiene acquisita,che l’aggressione a Meredith Kercher fu opera di più persone (...) la prospettazione difensiva di un Rudi Hermann Guede, unico responsabile dell’omicidio, il quale entra furtivo dalla finestra, viene sorpreso da Meredith e la uccide, si appalesa del tutto priva di fondamento”.

Beh certo, se di dà per “acquisito” che ci furono più aggressori, la teoria del singolo aggressore è senza fondamento. Ovvio.


La pulizia della scena del crimine

La motivazione gioca un po’ con l’ipotesi che una pulizia “selettiva” sia possibile o meno, cioè se sia stato possibile per Knox e Sollecito cancellare selettivamente le proprie tracce dalla scena del crimine (implicitamente lasciandovi quelle del solo Guede), per poi alla fine respingerla senza però affermarne l’impossibilità tecnica, ma solo perché sarebbe una congettura ed il giudizio deve basarsi su fatti accertati.

Ciononostante la sentenza gioca anche un po’ con le allusioni, definendo “una circostanza sicuramente singolare” il “fatto” che nessuna traccia della Knox, al di fuori di quelle (secondo Nencini) direttamente correlate all’omicidio, sia stata trovata nella casa doveva viveva da parecchie settimane.

Ora, prima di tutto quello non è un “fatto”: c’erano per esempio delle impronte parziali, ma pure il DNA e le impronte che Nencini vede come direttamente collegate all’omicidio possono essere altrettanto bene (e in realtà meglio) spiegate dal fatto che la Knox vivesse nel villino. Suona un po’ come un ragionamento che si morde la coda.

Inoltre, non è stata nemmeno trovata alcuna traccia del DNA della Mezzetti e della Romanelli (che erano lì da prima che la Knox arrivasse): un punto su cui ritorneremo.

Comunque sia, dopo aver (in un modo o nell’altro) respinto la possibilità di una pulizia selettiva, Nencini afferma che comunque una pulizia è stata certamente fatta, principalmente perché l’impronta sul tappetino del bagno è “orfana”, cioé non ci sono altre impronte insanguinate di piede nudo di quella taglia che vadano dalla stanza della Kercher al tappetino. La presenza di asciugamani insanguinati vicino al cadavere della vittima è poi ulteriore prova di un qualche tipo di pulizia.

E’ degno di particolare attenzione (anche per considerazioni successive) che Nencini scriva (pagina 81) “qualcuno trascorse molto tempo all’interno della villetta nella notte tra il 1° ed il 2 novembre 2007, alterando la scena del delitto e cancellando numerose tracce”.

Dunque c’è stata una lunga opera di pulizia nella notte: tenetelo a mente.

Per il momento vorrei solo far notare come pulire poche impronte di piede che vadano dalla stanza di Meredith Kercher al bagno piccolo non dovrebbe richiedere più di una mezz’ora, se fatto con uno spazzolino da denti, e che gli asciugamani intrisi di sangue avrebbero ben potuto essere usati in un molto approssimato e poi abortito tentativo di ripulire la scena.

Segue poi quello che, secondo Nencini, dovrebbe essere un elemento di sicuro interesse: la celebre lampada.

Stiamo parlando di una piccola lampada da tavolo, a quanto pare proveniente dalla stanza della Knox, trovata sul pavimento della stanza della vittima.

Invito coloro che sono interessati all’argomento a leggere il dettagliato articolo (link: http://groundreport.com/amanda-knox-the-lady-of-the-lamp-not/) di Clive Wismayer sul tema, mentre da parte mia mi limiterò a far notare che, dopo aver supposto che essa sia stata usata durante la notte successiva all’omicidio, la sentenza lascia completamente cadere il discorso, probabilmente perché poche pagine dopo (85) si ammette che “l’attività di pulizia riguardò il corridoio ed il bagnetto, mentre la camera della povera Meredith non poteva essere ripulita; e quindi fu chiusa a chiave.

Abbiamo quindi un altro punto fermo molto importante: la stanza della Kercher NON fu interessata dalle operazioni di pulizia, perciò l’uso della lampada nella stessa è non solo irrilevante, ma anche del tutto privo di logica … devo dire però che allora il solo fatto di averla nominata, per di più come elemento di “sicuro interesse”, suona tanto come un’allusione gratuita. A meno che invece non indichi una motivazione frammentaria, incapace di seguire un percorso logico coerente.

A questo punto Nencini si pone tre domande retoriche alla cui risposta provvederà egli stesso:

1) chi aveva interesse a mettere in atto la pulizia?
2) chi era sicuro di avere a disposizione tutto il tempo necessario ad operare una sistematica alterazione della scena del crimine?
3) quale era lo scopo di tale attività?

La risposta alla prima domanda è “certamente non Guede”, dato che egli conosceva appena Meredith e il suo unico interesse era quello di lasciare velocemente la scena. Inoltre, perché Guede avrebbe dovuto pulire “dappertutto” tranne che nel posto dove aveva commesso il crimine (Nencini stesso però afferma che quella stanza era impossibile da pulire) e quello dove aveva fatto i suoi bisogni?

“Rudi Hermann Guede non era assolutamente accostabile dagli investigatori né all’appartamento della villetta di Via della Pergola in uso alla vittima, né alla vittima medesima” (pagina 84).

Ma è davvero così? Stefano Bonassi (uno dei ragazzi del piano di sotto) parlò di lui agli investigatori e se fosse vero che la Knox lo conosceva “abbastanza bene” , come si afferma in sentenza a pagina 92, allora una Knox innocente avrebbe potuto nominarlo essa stessa (come infatti fece, ma senza neppure ricordarne il nome).

Ma non basta: Nencini afferma a pagina 84 che Guede “già aveva consumato furti con la medesima tecnica” e che perciò per lui simulare quel tipo di effrazione avrebbe voluto solo dire attirarsi addosso l’attenzione degli investigatori.

Quindi, oltre ad ammettere che il nostro ladro altamente esperto aveva già usato la stessa “inutilmente complessa” tecnica in passato, Nencini suggerisce anche che egli era noto agli investigatori in virtù delle sue attività (e aggiunge a pagina 92 che la polizia sarebbe arrivata velocemente a lui), ma in tal caso anche solo il suo nome fatto da Bonassi o dalla stessa Knox avrebbe sollevato l’interesse degli inquirenti.

Quindi un’attività di pulizia molto approssimata da parte di Guede non è al di là del possibile, una breve pulizia operata in uno stato di eccitata frenesia, uno stato nel quale egli avrebbe potuto dimenticare, o considerare irrilevante, i suo “regalino” nel bagno. Certo per ammettere ciò bisognerebbe anche abbandonare la concezione di Guede quale freddo professionista.

Passsiamo alla seconda domanda: Nencini afferma correttamente che Guede non avrebbe potuto conoscere i movimenti degli altri inquilini e quindi ogni operazione di pulizia da parte sua non avrebbe potuto che essere rapida, e infatti ho scritto sopra che avrebbe potuto fare solo quello e per di più in uno stato mentale sovreccitato.

Ovviamente Nencini deduce che la sola persona che sapeva di avere a propria disposizione tutto il tempo che voleva era Amanda Knox. Si potrebbe obbiettare che la Knox sapeva che la Romanelli era a Perugia e perciò un suo ritorno imprevisto al villino era nell’ordine del possibile, comunque, dato che ora mi interessa di più sottolineare le incoerenze intrinseche della motivazione, ammettiamo pure che la Knox avesse davvero a sua disposizione tutto il tempo che voleva per le operazioni di pulizia e per qualsiasi tipo di alterazione della scena del crimine, perché proprio questo mostrerà l’incoerenza di un altro punto critico nel ragionamento di Nencini.

A pagina 92, Nencini ripete ancora che la Knox sapeva che nessuno sarebbe rientrato alla villetta quella notte.

La sua terza risposta è che l’unico possibile scopo della pulizia e della complessiva alterazione della scena del crimine (includendo l’effrazione simulata) era quella di “impedire che l’omicidio fosse scoperto prima che gli autori del medesimo avessero avuto la possibilità di organizzare una loro fuoriuscita dalla scena (pagina 85).

Ora, questa della “fuoriuscita dalla scena” mi ha letteralmente fatto saltare sulla sedia la prima volta che l’ho letta, perché il suo significato letterale implicherebbe scenari mai adombrati prima nella già lunga storia di questo processo.

Mi sono quindi trovato a chiedermi se Nencini volesse suggerire che Knox e Sollecito avevano intenzione di fuggire, magari addirittura dall’Italia e ne furono impediti solo da quello che egli sembra considerare, più avanti nella motivazione, una scoperta anticipata del cadavere dovuta all’imprevisto arrivo della Polizia Postale. O magari intende semplicemente suggerire che volevano solo andarsene a Gubbio e lasciare che altri scoprissero il delitto.

Tuttavia in ambedue i casi chiamare la Romanelli e metterla in allarme a proposito dell’effrazione e del fatto che poteva essere successo qualcosa a Meredith (per quanto non un omicidio), ben prima dell’arrivo della Polizia Postale, smentisce questa interpretazione, come ripeteremo quando tratteremo della scoperta del delitto.

Alla fine rimango con il mio dubbio su cosa Nencini realmente volesse dire con quelle tre parole, mi chiedo se qualcosa è “rimasto nella penna” o se si tratta solo di un vicolo cieco in una sentenza scritta da diversi autori senza molta coordinazione tra loro.

Il furto dei telefoni cellulari usati da Meredith Kercher

La domanda di Nencini questa volta è “per quale ragione gli autori di un omicidio dovrebbero impossessarsi del telefono cellulare della vittima per poi abbandonarlo. E, nel caso che ci occupa, se Rudi Hermann Guede avesse un preciso interesse a farlo” (pagina 88).

Nencini afferma anche che i telefoni erano molto importanti per Meredith Kercher, perché chiamava spesso sua madre che non stava bene, dunque certamente non fu la vittima a gettarli nel giardino dei Lana.

Su questo punto non possiamo che essere d’accordo con la sentenza, però ci piacerebbe anche che Nencini si chiedesse come mai, se Meredith riteneva così importante chiamare spesso la madre, non abbia riprovato a chiamarla quella sera dopo il tentativo fallito delle 20.56. Ma lui non se lo chiede.

Nencini fornisce a se stesso una risposta che lascia lo scrivente abbastanza di sasso, per quanto sia fondamentalmente la stessa risposta che Massei diede anni fa: “l’unica spiegazione razionale al furto descritto può essere rinvenuta nella necessità che avevano gli autori dell’omicidio di impedire che il suono di uno dei due cellulari, all’interno della stanza di Meredith Kercher chiusa a chiave, potesse insospettire qualcuno che nel frattempo fosse entrato nell’appartamento, e far così scoprire il cadavere della ragazza prima del tempo ritenuto necessario dagli autori dell’omicidio” (pagina 88).

Ora, questa sentenza è stata definita da qualcuno una sceneggiatura per un film e certamente sarebbe una scena emozionante: i due assassini corrono nella notte, nel gotico scenario delle strette strade dell’antica città circondata da mura, ansimanti e con il cuore in gola, mentre un coltello insanguinato sbatacchia nella capace borsa della ragazza (senza peraltro lasciare tracce del suo passaggio nella borsa, ma questo bisogna lasciarlo fuori dalla sceneggiatura) , fino a quando non raggiungono un luogo che essi ritengono ben fuori la città. Qui lanciano i telefoni in ciò che essi pensano essere un dirupo e la cinepresa segue la parabola dei telefoni sullo sfondo di un cielo oscuro e spietato …
Poi il campanello (o il telefono) suona e ci si sveglia: il miglior modo per impedire che i telefoni allarmino chicchessia è quello si spegnerli o di silenziare la suoneria, qualcosa che i giovani d’oggi conoscono meglio del loro indirizzo di casa, e non correre in giro per la città come dei fessi, per di più con l’arma del delitto grondante sangue nella borsa.

Ma per Nencini non è abbastanza: “A fronte di questa spiegazione che appare l’unica razionale che questa Corte ritiene di poter fornire al dato fattuale, viene peraltro agevole osservare come una spiegazione alternativa a questo singolare fatto non sia stata fornita da alcuno degli imputati, né dai loro difensori. Il furto dei due telefoni cellulari è stato completamente ignorato dalle difese degli imputati nella ricostruzione degli accadimenti di quella notte. Non vi è, in buona sostanza, un’ipotesi alternativa con cui confrontarsi processuamente” (pagina 88).

Qui abbiamo un problema di principio: gli imputati non devono trovare una spiegazione o inventarsi scenari per ogni possibile evento, perché alcuni di essi potrebbero rimanere senza una spiegazione. Dovrebbe essere compito della Corte valutare se un’interpretazione di quell’evento sfavorevole agli imputati sia significativa e razionale o meno. Certo che però, se una Corte ritiene “l’unica razionale” una spiegazione come quella di cui sopra, allora ci troviamo in una specie di processo kafkiano e qualsiasi spiegazione alternativa la difesa avesse concepito non avrebbe fatto molta differenza.

Per di più poche pagine prima la motivazione affermava che Knox e Sollecito sapevano di avere a disposizione tutto il tempo che volevano per alterare la scena del delitto (o come minimo l’intera notte), perciò che cosa avevano da temere dalla suoneria di quei telefoni?

In verità qui, e sarà così nel corso di tutta la motivazione, scontiamo l’indisponibilità di Nencini, diversamente da Massei, a fornire una precisa cronologia: Knox e Sollecito temono che il delitto verrà scoperto prima che essi abbiano il tempo di … di fare cosa? Di eseguire una pulizia completa? Di andarsene a Gubbio? Di lasciare il paese? Di mangiare un’altra pizza?

Per esempio, se ci venisse fornita qualche stima temporale potremmo valutare se davvero la prematura scoperta dell’omicidio poteva o meno mettere in pericolo i loro piani.

Se il “tempo” in questione era quello necessario per la pulizia, allora in ogni caso farsi beccare con le mani sullo strofinaccio a pulire una scena del crimine insanguinata avrebbe reso totalmente irrilevante il suonare dei telefoni.

Se il “tempo” in questione era quello necessario per andare a Gubbio prima della scoperta del cadavere, allora bisognerebbe prima spiegare perché non partirono presto al mattino (ci ritorneremo), ma in ogni caso la sentenza dovrebbe specificare qual’era la loro intenzione.

Se il “tempo” in questione era la necessità di lasciare il paese, allora probabilmente avevano bisogno di più di un giorno, ma anche qui in ogni caso la sentenza dovrebbe specificare quale fosse la loro intenzione.

Altrimenti è una motivazione annebbiata.

Torniamo alla risposta di Nencini: per lui Guede non aveva ragione di rubare i telefoni, il suo unico interesse essendo quello di lasciare il villino quanto prima possibile.

Certamente quello sarebbe stato il comportamento più probabile per il freddo professionista del furto che Nencini ha in mente quando pensa a Guede, ma un Rudi Guede meno versato nelle arti criminali ed in preda al panico potrebbe aver preso i telefoni con un gesto istintivo, senza pensarci su molto, per poi gettarli via durante la fuga quando si rese conto che potevano collegarlo all’omicidio.

In ogni caso il DNA trovato sulla borsa della Kercher, dove con ogni probabilità si trovavano i telefoni, era il suo, no quello della Knox o di Sollecito.

Infine Nencini affronta l’obiezione che potrebbe essere stata la stessa Meredith Kercher a far entrare Guede: egli ne ammette la possibilità in linea di principio, ma poi la esclude perché Guede non avrebbe mai simulato un’effrazione, poiché questo avrebbe subito indirizzato verso di lui la polizia.

Certo, se si considera Rudi Guede come l’Arsenio Lupin di Perugia, allora probabilmente la polizia si sarebbe concentrata su di lui non appena notato che l’effrazione mostrava il suo ben noto stile, ma dato che nella realtà storica gli inquirenti non arrivarono a Rudi Guede per averne imemdiatamente riconosciuto il marchio di fabbrica nel furto, non necessariamente Guede avrebbe avuto tutta questa paura di tirarseli addosso simulando un furto di quelli che sapeva fare lui.

4 - La calunnia - L’alibi falso

La calunnia

Questo capitolo, riguardante la calunnia nei confronti di Lumumba, comincia con un capolavoro di eufemismo: “Amanda Marie Knox (...) dopo un iniziale sbandamento, mentre si trovava nella Questura di Perugia ove si era recata per accompagnare Raffaele Sollecito, rendeva dichiarazioni raccolte a sommarie informazioni testimoniali”  (pagina 95).

Chiamatelo il potere della sintesi …

Dopo aver integralmente citato le dichiarazioni della Knox delle ore 1.45 e 5.45 del 6 novembre 2007, i cui “limiti di utilizzabilità” vengono brevemente menzionati senza ulteriore approfondimento a pagina 93, Nencini spende finalmente alcune parole sul contesto in cui tali dichiarazioni vennero rese.

“L’imputata, al fine di escludere la sussistenza del reato (ed a maggior ragione quindi dell’aggravante, per ciò che in questa sede interessa) ha continuato a ripetere per tutto il corso del giudizio, ed anche nel suo esame dibattimentale davanti alla Corte d’Assise di Perugia - come si vedrà di qui a breve - la giustificazione alla sua condotta, che sarebbe consistita nel fatto di essere stata particolarmente confusa al momento in cui rendeva le dichiarazioni sopra riportate, per essere stata oggetto di pressioni psicologiche, finanche di violenza fisica, da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato presenti all’interno degli Uffici della Questura di Perugia nella notte del 6 novembre 2007; e deve ritenersi inevitabilmente anche del Pubblico Ministero presente alla redazione del secondo verbale (e per la verità la ragazza, nell’esame cui si sottopose alle udienze del 12/13 giugno 2009, espressamente faceva riferiento a pressioni che attribuiva anche al Magistrato).
Amanda Marie Knox incolpò dell’omicidio Patrik Lumumba alle ore 1.45 del 6 novembre 2007, e successivamente trascorsero quattro ore in cui la ragazza non ebbe colloqui con persone esterne, né risulta che abbia subito particolari maltrattamenti. Anche ammettendo per un momento che gli ufficiali di polizia giudiziaria della Questura di Perugia alle ore 1.45 del 6 novembre 2007, nella frenesia della ricerca di un colpevole all’omicidio della povera Meredith, forse anche perché oggettivamente pressati dall’opinione pubblica cittadina e dalla rilevanza mediatica che fino da subito la vicenda aveva assunto, avessero avuto un preciso interesse ad incolpare per il tramite della ragazza Patrik Lumumba, peraltro a loro perfettamente sconosciuto, dell’omicidio avvenuto, non si vede la ragione per la quale la ragazza dovesse mantenere la propria versione mendace, anzi arricchendola con particolari, alle 05.45 del 6 novembre 2007, allorquando si trovò di fronte non i perfidi ufficiali di polizia giudiziaria, che a suo dire l’avevano costretta a rendere tali dichiarazioni, ma un Magistrato a cui la ragazza avrebbe potuto rivolgersi con maggiore fiducia, denunciando fin da subito le prevaricazioni subite, senza neppure il rischio di essere esposta a ritorsioni da parte della polizia, poiché alle 5.45 del 6 novembre 2007 Amanda Marie Knox non era ancora in vinculis [arresto].
Ma ciò non accadde.
Amanda Marie Knox reiterò le accuse davanti al Magistrato, accuse che non furono mai ritrattate dalla ragazza per tutti i giorni successivi, neppure allorquando, finalmente sottratta alle grinfie della polizia e del Pubblico Ministero, ebbe la possibilità di colloquiare con i propri difensori e con i propri familiari; (...) [ciò] necessita di una spiegazione; spiegazione che non può essere rinvenuta in una presunta debolezza caratteriale della ragazza, la quale, anzi, fin dall’immediatezza del rinvenimento del cadavere martoriato della povera Meredith, manifestò all’esterno una freddezza, finanche trasmodante in palese indifferenza, che colpì non una soltanto delle persone che in quelle ore ebbero contatto con quei tragici avvenimenti (molti testi in primo grado riferirono di essere stati colpiti dall’atteggiamento di Amanda e Raffaele, i quali fin dal rinvenimento del cadavere rimasero quasi estranei agli eventi, e, successivamente, in Questura, si scambiavano effusioni, quasi come se la vicenda non li riguardasse)” (pagina 97-98). 

L’interrogatorio notturno del 5-6 novembre 2007 è un autentico campo minato, soprattutto per un italiano, ma ci sono delle cose che vanno dette.
Prima di tutto non è vero che la Knox non ritrattò le accuse fatte a Lumumba “per lunghi giorni”: già il suo primo memoriale del 6 novembre 2007 avrebbe potuto essere letto come una parziale ritrattazione, ma in ogni caso il suo secondo memoriale del 7 novembre costituiva una piena ritrattazione ed è stato totalmente ignorato da Nencini (come lo fu dalla Corte di Cassazione un anno prima), sebbene l’avvocato Dalla Vedova avesse esplicitamente invitato nella sua arringa il giudice a considerarlo.

E’ ben noto come non ci sia peggior sordo di chi non vuole intendere.

In realtà c’è in sentenza a pagina 100 un poco chiaro riferimento a un “memoriale nel quale il personaggio di Lumumba non appare”, ma se questo è un richiamo al memoriale del 7 novembre, allora Nencini non trae le conseguenze derivanti sulla questione della calunnia dalla data in cui fu scritto.

In secondo luogo, l’analisi dell’interrogatorio notturno è almeno in parte autocontraddittoria, come si desume dalle parti in grassetto più sopra: Nencini ammette che la Knox aveva affermato di aver ricevuto pressioni anche dal Pubblico Ministero ma poi dice che la stessa avrebbe dovuto trovare rifugio dai “perfidi” poliziotti in quello stesso Pubblico Ministero e poi di nuovo dice “sottratta alle grinfie della polizia E del Pubblico Ministero”.

Perciò, qualsiasi cosa si voglia pensare di quella notte, il ragionamento di Nencini presenta un’evidente contraddizione, un’ulteriore incorenza interna alla motivazione.

Le considerazioni sul comportamento di Knox e Sollecito dopo la scoperta del delitto sono a mio parere delle banalità, tuttavia risponderò loro nella mia esposizione di quella che credo essere la vera causa della calunnia.

Secondo il ragionamento di Nencini, se la Knox avesse calunniato Lumumba solo per porre fine alle pressioni che stava ricevendo, allora avrebbe dovuto ritrattare nei giorni successivi (ma è quello che fece con il memoriale del 7 novembre).

Nencini afferma inoltre che se avesse ritrattato si sarebbe esposta a nuovi e più stringenti interrogatori (ma, di nuovo, lei in realtà ritratto con il memoriale del 7 novembre).

L’argomentazione secondo la quale non accusò Guede perché questi avrebbe potuto accusarla a sua volta per ritorsione è ragionevole SE si respinge l’ipotesi di una pulizia selettiva (cosa che Nencini fa, sebbene un po’ di malavoglia), perché una pulizia selettiva avrebbe necessariamente implicato la volontà di incastrare il terzo complice.

Quello che invece non è spiegato è la ragione di fondo per cui la Knox doveva calunniare Lumumba: non basta dire genericamente “per depistare le indagini”. Avrebbe potuto benissimo starsene zitta, tanto più che l’SMS scambiato con Lumumba, proprio perché in nessuna maniera collegato al delitto, non la metteva a rischio in alcun modo, mentre accusare un innocente non poteva che causarle problemi, tanto più che, se colpevole, sapeva benissimo che nella stanza di Meredith non c’erano le tracce di Lumumba, ma quelle di qualcun altro.

Il fatto che la Knox “introduca un movente di natura sessuale” nelle sue dichiarazioni non è prova di conoscenze che non avrebbe potuto avere se innocente: questi “moventi” erano discussi a tutto spiano sui media sin dal 2 novembre (un’inevitabile conseguenza dello stato in cui il corpo venne ritrovato) e per di più l’americana era stata bombardata di domande a sfondo sessuale dalla polizia durante tutti i suoi interrogatori.

Lo stesso può essere detto in merito al fatto che la Knox abbia raccontato di aver sentito Meredith urlare nel suo onirico ricordo: è difficile immaginare che qualcuno ammazzato con tanta violenza non avrebbe urlato.

Infine, il fatto che la Knox si collochi nelle sue visioni in Piazza Grimana, lo stesso posto dove il teste Curatolo afferma di averla vista con Sollecito la sera dell’omicidio, deve essere esaminato alla luce della successiva affermazione di Nencini che Piazza Grimana era un abituale posto di ritrovo per la gioventù.

Dato che lo slogan “ha accusato un innocente” è un punto fisso di tutte le vulgate colpevoliste, mi dilungherò ora un po’ nell’esposizione del mio punto di vista personale sulle cause ultime della calunnia in danno di Patrick Lumumba.

Devo innanzitutto dire che la mia analisi potrebbe causare qualche perplessità anche in campo innocentista e perciò devo dire con molta chiarezza che si tratta di un’interpretazione personale che, pur basata su fatti acclarati, e tuttavia il prodotto delle mie cogitazioni.

Incominciamo dalla frase ad effetto: Amanda Knox non è responsabile per quanto da lei affermato nelle dichiarazioni firmate durante l’interrogatorio notturno del 5-6 novembre 2007 nella Questura di Perugia, perché esse furono prodotte in uno stato mentale alterato che può essere solo definito come di temporanea infermità mentale e quindi di incapacità di intendere e di volere.

E’ vero che anche la sentenza di secondo grado negò che si potesse ipotizzare un’incapacità di intendere e di volere (che avrebbe comportato una piena assoluzione dall’accusa di calunnia) e che questa linea difensiva non è mai stata sostenuta né dalla Knox né dai suoi avvocati.

Ma io penso che ciò sia stato dovuto a molteplici ragioni.

Per quanto riguarda gli avvocati, dal punto di vista delle strategie processuali, sostenere una temporanea incapacità di intendere e volere avrebbe potuto avere dei riflessi negativi nei confronti della più rilevante (e principale) accusa di omicidio: se si fosse accettato che la Knox poteva diventare “temporaneamente matta”, i giudici potrebbero aver pensato che chi diventa “pazzo” una volta può diventarlo due volte e quindi magari uccidere, o comunque essere capace di qualsiasi cosa.
Per quanto riguarda Amanda Knox stessa, da una parte è comprensibile che sia molto difficile per chiunque accettare di aver anche solo sfiorato un stato definibile come “pazzia”, mentre dall’altra parte una volta abbandonato tale stato, i ricordi dello stesso possono solo essere molto confusi, proprio come lo sono quelli della Knox.

Un piccolo riferimento in questo senso lo si può trovare anche nel libro da lei scritto, Waiting To Be Heard, dove, a pagina 227 si può leggere “If I said I’d imagined things during the interrogation, I’d be called crazy” (“Se avessi detto di essermi immaginata delle cose durante l’interrogatorio, mi avrebbero definita pazza”).

Ora, il termine “pazza” è generico e rozzo, più letterario che appartenente alla psicologia o alla psichiatria, ma chiaramente esso implica, nel senso comune, tali conseguenze che chiunque non può che spaventarsi al pensiero di essere considerato tale.

Ma ad un livello più sottile esistono particolari stati dellal mente in condizioni di stress estremo e prolungato che possono causare ciò che viene comunemente definito “esaurimento mentale” o “esaurimento nervoso” (“mental breakdown” o “nervous breakdown” in inglese).

Anche se tali espressioni sono più colloquiali che scientifiche, ciò che esse descrivono, anche se magari chiamato con altre parole dagli specialisti, è molto chiaro: “un disordine psichiatrico limitato nel tempo che si manifesta principalmente come una severa depressione indotta da stress, ansia e/o dissociazione in un individuo precedentemente funzionale, al punto che esso non è più in grado di funzionare nei compiti quotidiani fino a che il disordine non si risolve” (dalla voce “Mental Breakdown di Wikipedia in inglese).

Ebbene, la mia interpretazione delle cause della calunnia a danno di Patrick Lumumba da parte di Amanda Knox si basa proprio sull’assunto che durante la notte del 5-6 novembre 2007 la ragazza di Seattle si trovò, per diverse ore e con postumi fino a 24-48 ore, soggetta ad un fenomeno mentale di questo tipo, che creò nella sua mente quelli che di solito vengono definiti “falsi ricordi” a proposito di Lumumba, ma che io considero invece essere state vere e proprie allucinazioni.

Ma l’interrogatorio notturno del 5-6 novembre non fu in se stesso la causa di questo fenomeno, esso fu solo la perturbazione finale che causò il crollo della già provata mente di Amanda Knox, la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso.

In fisica si dice che un sistema si trova in equilibrio instabile quando, se soggetto ad una pertubarzione o forza esterna, non tende a recuperare la sua posizione di equilibrio dopo un’oscillazione attorno ad esso, bensì a muovere ulteriormente lontano da esso, si potrebbe dire catastroficamente, nel senso della teoria matematica nota come Teoria delle Catastrofi.

Bene, io credo che la mente di Amanda Knox sia stata portata dagli eventi avvenuti in Perugia dal 2 al 5 novembre 2007 in uno stato d’equilibrio progressivamente instabile e prossimo al crollo, i cui sintomi si possono trovare descritti nelle testimonianze di diversi testimoni, e che sperimentò la perturbazione decisiva durante l’interrogatorio notturno, collassando per effetto di quest’ultimo in uno stato di “esaurimento mentale” nel corso del quale, soggetta ad allucinazioni, rese le dichiarazioni incriminate.

Lo shock primario che causò la rottura dell’altrimenti stabile equilibrio della mente della Knox e la portò ad uno stato d’instabilità fu causato dalla scoperta del cadavere della sua coinquilina e dai successivi giorni costellati di interrogatori e in cui lei stessa si tormentò su chi fosse stato e perché.

Come elementi di prova in tal senso, io reinterpreto alcuni comportamenti della Knox che sono stati da altri interpretati come indizi contro di lei, ovvero il comportamento tenuto in Questura nel pomeriggio del 2 novembre e la reazione alla vista dei coltelli nel corso della visita al villino di Via della Pergola 7 nel pomeriggio del 4 novembre.

E’ infatti mia opinione che qualsiasi cosa la Knox fece nel pomeriggio del 2 novembre nella Questura di Perugia (ciò che disse o non disse, e come, alle amiche inglesi di Meredith, il suo bisogno di abbracciare Sollecito e fare le smorfie e pure il suo colpirsi le tempie con le mani come riportato dal teste Fabio D’Astolto) è un’indicatore comportamentale di uno stato mentale già alterato se paragonato all’equilibrio ordinario e non un indizio di colpevolezza di qualsiasi tipo.

Credo anche che la reazione della Knox alla vista dei coltelli nella cucina del cottage il 4 novembre, una reazione che fu di autentico crollo, anche fisico, ulteriormente dimostri che il suo stato di prostrazione mentale stava solo peggiorando.

Il giorno 5 novembre, fino alle 22-22:30, è invece un giorno relativamente normale in cui la Knox cerca di recuperare (anche se solo in parte se ne rende conto) il proprio equilibrio attraverso gesti e comportamenti ordinari, come andare a lezione all’Università per Stranieri o andare con Sollecito a cena da amici di lui.

Tutto questo le permette di distanziarsi un poco da quella soglia (la soglia della rottura dell’equilibrio, dell’evento catastrofico in senso matematico) alla quale era già arrivata molto vicina il giorno prima al villino.
DI conseguenza, quando più tardi quella stessa sera comincia l’interrogatorio che produrrà le fatali dichiarazioni e l’arresto suo e di Sollecito, l’americana si trova in uno stato mentale abbastanza stabile da permetterle di sostenere per circa due ore quelle pressioni esterne che, indipendentemente da intensità ed intenzioni, porteranno in ultima analisi al “collasso” o “esaurimento” mentale.

E’ importante rendersi conto che un urlo in più o in meno, uno scappellotto in più o in meno, questa o quella parola, questo o quel tono di voce, cambiano molto poco, perché si sommano come l’ultima fatale goccia ad una situazione generata il 2 novembre dalla scoperta del cadavere di Meredith Kercher e che peggiorò nei giorni successivi, nel corso delle lunghe ore passate in Questura e delle notti poco meno che insonni, insomma ad una preesistente condizione di stress, cui oltretutto la Knox poteva essere particolarmente soggetta per una propria maggior predisposizione individuale.

Tutto ciò ci porta al fatidico SMS mostrato alla Knox e alle insistite domande su di esso: questo è il momento in cui avviene la rottura del sempre più instabile equilibrio, la soglia viene superata e la mente alterata della ragazza americana produce quei falsi ricordi o allucinazioni che costituiscono l’essenza della calunnia nei confronti di Patrick Lumumba.

“In that instant, I snapped” (“In quell’istante io persi la testa [ma anche “mi spezzai”]”) scrive la Knox a pagina 117 del suo libro parlando proprio di questo esatto momento, e quelle parole rappresentano adeguatamente un momento di catastrofica transizione tra il prima ed il dopo. La stessa teste dell’accusa Anna Donnino testimoniò di un simile cambio nel comportamento di Amanda quando le venne mostrato il testo del messaggio, anche se magari l’interpretazione di quel cambiamento da parte della Donnino era probabilmente diversa dalla mia.

Ulteriori indicazioni del carattere “patologico” di quei ricordi e di quelle dichiarazioni possono essere viste nel ben noto “confusamente ricordo” che compare nelle dichiarazione delle 1.45 e nella frase “si dà atto che la Knox si porta ripetutamente le mani alla testa e la scuote” aggiunta dagli inquirenti alla dichiarazione delle 5.45.

Durante i due giorni successivi, 6 e 7 novembre, la giovane recupererà gradualmente (certo non aiutata dal suo nuovo status di carcerata) la sua sanità mentale, ma tracce del collasso subito dalla sua mente sono presenti in tutto il suo libro, anche parlando di periodi successivi, qualche volta in forma esplicita, altre volte implicite e affidate alla sensibilità del lettore.

In conclusione, l’opinione dello scrivente è che Amanda Knox calunniò Patrick Lumumba trovandosi in uno stato di alterazione mentale che la rende non responsabile e perciò non punibile per le sue dichiarazioni.

La giustizia italiana ha deciso diversamente, forse anche perché l’interpretazione che io propongo non è mai stata usata come strategia difensiva, vuoi perché potenzialmente controproducente nel contesto della più importante accusa di omicidio, vuoi perché la stessa Knox (e i suoi avvocati) non ne volevano affrontare le implicazioni.

L’alibi falso

Come premessa all’analisi della valutazione da parte di Nencini di quello che egli ritiene in ultima analisi essere un falso alibi, è opportuno spiegare la differenza esistente, nel contesto della legge italiana, tra un alibi falso ed un alibi fallito.

Un falso alibi è una storia deliberatamente architettata da un imputato con l’impiego di menzogne per proteggersi dalle accuse, essenzialmente ponendosi in altro luogo rispetto alla scena del crimine al tempo in cui il crimine stesso ha avuto luogo.

Un alibi fallito è invece solo un alibi che non può essere confermato come vero, ma del quale neppure si può provare che sia stato costruito attraverso asserzioni dimostrabilmente false.

Un alibi falso può essere usato come elemento indiziario contro l’imputato, un alibi fallito invece no.

Si deve tuttavia aggiungere che bugie od omissioni riguardanti l’alibi di un imputato, per poter configurare un alibi falso e per definire il livello di gravità dell’alibi falso come indizio contro lo stesso imputato, devono essere bugie od omissioni aventi attinenza con il delitto.

Per esempio, l’aver mentito dicendo di aver mangiato a pranzo solo un’insalata invece che un triplo cheeseburger con patatine fritte può essere considerato come una vaga indicazione di una certa generica propensione a mentire, ma, non avendo collagamento diretto con il reato, non come prova che l’imputato, conscio della propria colpevolezza, stava cercando di costruirsi una storia di copertura.

Con questa premessa in mente possiamo meglio esaminare le ragioni per le quali Nencini ritiene che l’alibi della Knox sia falso. L’alibi di Sollecito è considerato anch’esso falso perché Raffaele si è sempre collocato con Amanda.

Nencini vede la prima “crepa” nell’alibi della Knox nel fatto che lei disse di aver ricevuto l’SMS di Lumumba che le diceva di non andare al lavoro mentre si trovava a casa di Sollecito, mentre l’analisi della copertura delle celle telefoniche la smentisce.

Questo è un errore fattuale e probabilmente si basa su di un simile errore commesso da Massei, che, a pagina 345 della sua motivazione, afferma che la cella contattata dal telefono della Knox all’atto della ricezione del suddetto SMS non copriva l’appartamento di Sollecito. Però quando precedentemente, a pagina 340, Massei riferiva della copertura delle varie celle della zona, dava atto che che l’appartamento di Sollecito era coperto con un buon segnale anche da quella cella contattata dal cellulare della Knox per ricevere l’SMS di Lumumba.

Dunque non è affatto provato che la Knox abbia mentito in merito, anzi.

Voglio però aggiungere che, dato che stiamo parlando di eventi antecedenti all’omicidio e che la premeditazione è unanimemente fuori discussione, questa piccola bugia od omissione, anche se fosse stata vera, e non lo è, sarebbe stata di valore indiziario praticamente nullo.

Sento il bisogno di dirlo, perché leggo in questa motivazione una certa tendenza a sfruttare ogni minima contraddizione, reale o percepita, contro gli imputati e non è che la cosa mi piaccia molto.

Dopo questo “piccolo incidente” veniamo ai due testimoni che più seriamente mettono a rischio l’alibi della Knox, ovvero Curatolo e Quintavalle, anche se il valore che le loro testimonianze assumono è maggiore o minore a seconda della ricostruzione degli eventi avallata dalla Corte.

Nencini li considera entrambi pienamente attendibili e non mi dilungherò ripetendo qui gli argomenti da me usati per mettere in dubbio tale attendibilità quando ho scritto a proposito della sentenza della Cassazione.

Quello che invece voglio far notare è che Nencini esprime il proprio avallo all’ attendibilità di Curatolo affermando che “nessuno dei Giudici di merito che si sono occupati della vicenda ha messo in discussione la circostanza che il teste Curatolo abbia visto insieme i due imputati di sera, in Piazza Grimana” (pagina 128).

Quest’affermazione semplifica la vita a Nencini, perché gli rende poi facile dire che Curatolo poteva averli visti in Piazza Grimana solo la sera del primo novembre perché tanto il 31 ottobre quanto il 2 novembre essi si trovavano inconfutabilmente altrove.

Ma Nencini si sbaglia a dire quanto sopra: Hellmann scrisse a pagina 51 della propria motivazione “Non ritiene dunque questa Corte attendibile la deposizione resa dal teste Curatolo, non potendo essere riposto alcun affidamento sulla verificazione dell’episodio e, soprattutto, sulla identificazione dei due giovani con gli attuali imputati.” 

La Cassazione potrà aver dissentito, sì, ma l’affermazione di Nencini è ugualmente errata.

In realtà è opinione di chi scrive che Curatolo vide qualcun altro e che probabilmente lo vide nella sera del 31 ottobre (Halloween) in mezzo ad una folla gioiosa di giovani che prendevano gli autobus per le discoteche. Poi probabilmente nella sua mente questo evento si mescolò con la serata successiva (primo novembre), perché il primo novembre era stato nel frattempo reso “speciale”, sia dai “Marziani” vestiti di bianco della Polizia Scientifica il 2 novembre che dai media nei mesi successivi.

Comunque non insisterò su Curatolo, dato che sarà proprio lui la nemesi di Nencini nel capitolo finale: anche se Nencini cerca di sminuire l’accuratezza temporale di Curatolo dicendo che “per quanto attiene all’orario in cui il teste avrebbe visto assieme gli imputati, individuato da quest’ultimo tra le 21.30 e la mezzanotte del 1° novembre 2007, il ragionamento deve invece scontare una sorte di tolleranza, poiché si tratta di un ricordo non legato ad uno specifico punto di riferimento temporale”, tuttavia la sua ricostruzione del delitto si scontrerà con la testimonianza di Curatolo ben oltre ogni concepibile “tolleranza”.
Ancor di più se uno considera che a pagina 140 mette agli atti che “in base alle precise deposizioni testimoniali di Antonio Curatolo, che la Corte ritiene attendibili per le ragioni espresse, Amanda Marie Knox e Raffaele Sollecito, dalle 21,30 alla mezzanotte circa del 1° novembre 2007 furono notati a più riprese in Piazza Grimana”

Vorrei solo evidenziare un altro paio di frasi di Nencini riguardanti Curatolo.

La prima: “L’esperienza processuale insegna, infatti, che qualunque deposizione testimoniale, se parcellizzata e sottoposta al vaglio critico in ogni singola affermazione, si rivela densa di contraddizioni” (pagina 128).

Nencini la usa a difesa dell’affidabilità di Curatolo, ma dovrebbe ricordarsene anche quando si occupa delle dichiarazioni della Knox.

La seconda definisce Piazza Grimana “sicuramente un luogo abitualmente frequentato dai ragazzi che gravitavano nelle vie adiacenti” (pagina 129): ma allora non si può definire inusuale o significativo come indizio il fatto che Amanda si collochi in Piazza Grimana nelle sue dichiarazioni rillasciate durante l’interrogatorio notturno.

A proposito di Quintavalle si potrebbe andare avanti all’infinito contestando la patente di affidabilità rilasciatagli da Nencini,per esempio attraverso una diversa valutazione dell’alquanto ritardata identificazione “con certezza” della Knox, che avvenne soltanto al processo del 2009, quando in pratica persino i gatti randagi di Perugia sapevano che faccia avesse.

Preferisco invece rammentare ai lettori la storia di un testimone oramai dimenticato del primo processo: Fabio Gioffredi.

Fabio Gioffredi era uno studente universitario perugino che testimoniò di aver visto Guede, la Kercher, La Knox e Sollecito uscire tutti assieme dal villino alle cinque del pomeriggio del 30 ottobre da una distanza di una decina di metri, aggiungendo pure dettagli carini, come il cappotto rosso in stile anni Sessanta a suo dire indossato dalla Knox.

Un testimone giovane e dalla vista buona, certamente non un drogato, senza alcuna ragione per mentire, che effettuava un’identificazione a distanza ravvicinata alla luce del giorno e con notevoli dettagli: non poteva sbagliarsi.

E invece si sbagliava completamente: fortunatamente per lui Sollecito poté portare diversi testimoni in grado di certificare che lui quel giorno e a quell’ora era da tutt’altra parte. Se fosse rimasto da solo a casa (o con la sola Knox) quel giorno, saremmo ora a parlare dell’ “inattaccabile dimostrazione” fornita da un testimone “assolutamente credibile” che i tre imputati e la vittima si frequentavano da prima dell’omicidio.

La cosa che Gioffredi aveva sicuramente in comune con la più parte dei testimoni oculari (e qualche testimone “auricolare”) di questo processo è che si fece avanti solo circa un anno dopo l’omicidio.

Un’altro aspetto degno di nota a proposito della testimonianza di Quintavalle è la sua rilevanza. In se stesso il fatto che la Knox abbia mentito sull’aver lasciato l’appartamento di Sollecito prima delle 8 piuttosto che dopo le 10 del 2 Novembre non ha una diretta rilevanza per ciò che concerne l’omicidio.

Certo, ne minerebbe la credibilità complessiva, quindi anche la credibilità per ciò che riguarda il resto del suo racconto, ma se non era una bugia finalizzata a nascondere qualcosa di più strettamente connesso al delitto, si tratterebbe solamente di un debole elemento indiziario.

Ma allora qual’è per Nencini la vera importanza della testimonianza di Quintavalle?

All’apparenza essa è principalmente che nella sua testimonianza Quintavalle la descrive come molto stanca, supportando di conseguenza l’assunto di Nencini che lei e Sollecito erano stati svegli a pulire e simulare quella notte.

E’ qualcosa, però la valutazione di Quintavalle sullo stato di stanchezza della Knox è comunque cosa soggettiva: avrebbe potuto essere solo una sua percezione. Inoltre anche se fosse stata stanca, avrebbe potuto esserlo perché non aveva dormito bene.

Perciò finora nulla di veramente compromettente, se vero (cosa che per me non’è, ma questa è un’altra questione). Ma cosa rimane delle ragioni che resero Quintavalle tanto importante durante i precedenti processi, ovvero l’acquisto di candeggina da parte della Knox nel suo negozio e il fatto che la sua testimonianza provasse che la Knox andava quella mattina a quell’ora a cominciare la sua opera di pulizia al villino?

Il primo punto viene scartato da Nencini: la Knox per lui andò da Quintavalle per comprare qualcosa di non specificato che però non trovò.

Il secondo punto è più complicato: Nencini, a differenza di Massei, pensa che ci sia stata un’attività di pulizia notturna, perciò per lui è irrilevante usare Quintavalle per sostenere l’ipotesi di una pulizia al mattino.

In realtà non è nemmeno chiaro cosa Nencini pensi a proposito di un’ulteriore attività di pulizia avvenuta al mattino.

Nencini, sempre avaro quando si tratta di fornire una dettagliata cronologia ed una precisa ricostruzione degli eventi, dice solo a pagina 156 che “Nella villetta di Via della Pergola nr 7, nella giornata del 2 novembre 2007, dalle prime ore della giornata e fino alle 12.00 circa, nessuno si fece la doccia, così come nessun ladro era penetrato dalla finestra della stanza di Filomena Romanelli; più semplicemente il complesso indiziario fin qui esaminato ci consegna una evidenza in cui gli imputati misero in atto una attività di pulizia delle tracce dell’omicidio commesso, ed una attività di ‘depistaggio’ delle indagini”.

Quindi bisogna veramente spingersi fino ad effettuare un’autentica esegesi delle parole di Nencini per cercare di capire se egli implichi o meno la sussistenza di un’attività di pulizia anche al mattino. Bisogna quindi affidarsi a quella logica di cui la motivazione non fa gran mostra e dire che se gli imputati non avessero avuto bisogno di effettuare un’ulteriore pulizia al mattino, avrebbero allora ben potuto “lasciare la scena” e andare a Gubbio. Ovviamente SE questo è ciò che Nencini intende con il suo “fuoriuscita dalla scena”.

Se ci limitiamo alle parole di Nencinii il meglio che si può dire è che “non si può escludere” che ci sia stata un’ulteriore attività di pulizia nella mattinata del 2 novembre.

Bisogna notare che se Quintavalle non serve come sostegno per la teoria di un’ulteriore pulizia mattutina, allora la rilevanza della sua testimonianza risulta alquanto ridotta: tutto quello che se ne può trarre è che la Knox ha mentito ma senza una diretta connessione con un’attività collegata all’omicidio e che Quintavalle, soggettivamente, ha ritenuto che essa fosse stanca, la qual cosa al massimo è un debole supporto per la teoria di Nencini che l’americana sia rimasta sveglia gran aprte della notte ad alterare la scena del delitto.

Nencini afferma poi che ulteriori “elementi oggettivi” dimostrano la falsità dell’alibi degli imputati e tali elementi consisterebbero nei tabulati telefonici e nell’attività del computer di Sollecito.

Essenzialmente Nencini, rigettando le obiezioni tecniche delle difese, stabilisce che il cellulare di Sollecito (stranamente non viene fatto riferimento alcuno a quello della Knox) venne spento alle 20.42 del primo novembre e riacceso poco dopo le 6 del 2 novembre.

Ora, il valore probatorio di simili “fatti” mi è sempre sfuggito: in un omicidio senza premeditazione come questo (e per di più con la dinamica che vedremo in seguito), spegnere i cellulari non può essere considerato un atto pianificato (per di più, anche in caso di premeditazione sarebbe stato meglio lasciarli accesi e silenziati a casa) e d’altro lato, se uno considera che alle 20.40 la Popovic aveva appena detto a Sollecito di non aver bisogno del suo aiuto quella sera, è perfettamente logico pensare che egli spense il telefono per non essere disturbato durante la sua serata a due con la sua ragazza.

Spegnere i cellulari attorno alla mezzanotte o poco dopo avrebbe potuto essere considerato come un qualche debole elemento indiziario a favore della tesi di una pulizia notturna, ma averli spenti alle 20.42, proprio dopo la visita della Popovic, prova piuttosto che la coppia non voleva essere disturbata nella sua intimità in casa di Sollecito.

Ancora: è una ben nota abitudine dei giovani (e meno giovani) al giorno d’oggi tenere i loro cellulari accesi quando escono di casa, perciò se, come ritiene Nencini (e come ritenne Massei e così pure la pubblica accusa almeno dal 2009) gli imputati lasciarono la casa di Sollecito quella sera senza alcun intento maligno nelle loro menti, è molto più logico pensare che i loro cellulari sarebbero stati accesi piuttosto che spenti.

E in verità alla fine tutto ciò che Nencini riesce ad ottenere dai tabulati del cellulare di Sollecito è che Raffaele non dormì tranquillamente fino a più tardi (come riferito dalla Knox) ma che si svegliò alle 6,02 antimeridiane.

Nencini supporta questa “incriminante” conclusione con gli elementi probatori provenienti dal computer di Solelcito, che mostrano che ci fu interazione umana alle 5,32 del mattino del 2 novembre.

L’interpretazione che Nencini dà al risultato della sua brillante analisi è che prima di tutto Sollecito e la Knox mentirono (e una menzogna è sempre una menzogna, anche quando è banale) e che non passarono affatto una notte tranquilla, con ciò indirettamente (molto indirettamente ) implicando che la passarono ad alterare la scena del delitto.

Infine Nencini nega valore come sostegno dell’alibi al registro delle attività sul MACBOOKPRO di Sollecito (Raffaele aveva due PC). La motivazione concede solo che ci fu interazione umana fino alle 21.10 (visione del film “Amelie”), anche se più tardi tale intervallo verrà esteso sino alle 21,20 (probabilmente riferendosi al cartone animato “Naruto”, che però porterebbe l’orario alle 21,26) ed infine ammette che avrebbe potuto esserci una breve interazione umana intorno all’una di notte del 2 novembre.

Quest’ultimo elemento è irrilevante per Nencini: l’omicidio fu commesso prima della mezzanotte e quindi gli imputati ebbero tempo più che a sufficienza per andare a gettare i telefoni cellulari della Kercher e ritornare a casa di Sollecito prima dell’una di notte.

A noi invece l’insieme di questi elementi fornisce qualche molto desiderato riferimento temporale (ci tocca dedurre ciò che Nencini non esplicita): qualsiasi attività di pulizia e simulazione notturna non poté aver luogo prima dell’una di notte o dopo le 5,32 del mattino del 2 novembre, a meno che non si supponga che Knox e Sollecito abbiano operato separatamente.

Ma dato che maggiore è il tempo che si attribuisce alla pulizia e peggio è per la ricostruzione di Nencini, sarò galantuomo e assumerò il valore fornito dai due citati elementi probatori (interpretati secondo Nencini): non più di quattro ore.

Le parole finali del capitolo sono anch’esse utili a strappare dalla presa di Nencini alcuni ulteriori dettagli circa la mai chiara cronologia del delitto e degli eventi successivi: “le distanze tra i luoghi in interesse consentono infatti di ritenere che gli imputati abbiano consumato l’omicidio poco prima della mezzanotte del 1° novembre 2007 e, fuggiti nella immediatezza dalla abitazione di Via della Pergola e abbandonati i telefoni cellulari in Via Sperandio, siano rientrati nella abitazione del Sollecito, anche al fine di pianificare la attività posta in essere successivamente, ed ivi si trovassero poco prima dell’una della notte del 2 novembre 2007.”  (pagina 146)


5 - Il quadro indiziario desumibile dalle dichiarazioni degli imputati e dei testimoni

Nencini esordisce analizzando le dichiarazioni della Knox concernenti il mattino del 2 novembre e la prima cosa alla quale obbietta è la doccia che la Knox sostiene di aver fatto a Via della Pergola: per Nencini la ragazza non aveva motivo di fare una doccia o di cambiarsi d’abito al villino (avrebbe potuto fare tutto a casa di Sollecito portandosi dietro gli abiti il giorno prima).

Evidentemente il buon giudice non ha mai avuto una fidanzata capricciosa abituata a cambiar spesso idea su cosa le stesse meglio. Né pare gli sovvenga che magari la Knox considerava le due case, a 400 metri l’una dall’altra, come villa e dépendance. Gli spazi in America sono più grandi dei nostri, caro giudice. Tuttavia in seguito, per giustificare la presenza del coltello al villino, Nencini userà proprio un argomento simile.

C’è anche un momento sotto i riflettori per il caro vecchio mocio, fedele compagno di così tante motivazioni: per Nencini la Knox non aveva motivo di portarlo a casa di Sollecito perché l’acqua rimanente dalla sera prima avrebbe potuto tranquillamente essere asciugata con mezzi improvvisati. Non tiene conto del fatto che magari i due volevano usare nuovamente il lavandino per lavare quanto usato per la colazione.

A parte queste inezie, Nencini si concentra nella minuziosa analisi di ciò che la Knox ha affermato di aver fatto quel mattino al cottage e praticamente trova tutto non credibile:

1) quando trovò la porta d’ingresso aperta avrebbe dovuto se non chiamare immediatamente la polizia, almeno ispezionare tutte le stanze e in questo modo avrebbe immediatamente scoperto l’effrazione, invece di farsi la doccia in un tale contesto carico d’ansia;

2) un ladro non avrebbe chiuso la porta della Romanelli: la Knox l’avrebbe quindi trovata aperta e si sarebbe subito accorta che la stanza era stata violata;

3) la Knox si fece la doccia in un bagno che presentava molteplici tracce di sangue e usò il tappetino per muoversi in giro senza curarsi dell’impronta insanguinata su di esso;

4) Nencini si dimentica completamente (per ora) del “regalino” di Guede nel bagno grande, ma pensa che la Knox avrebbe dovuto chiamare subito qualcuno o almeno Sollecito in suo soccorso.

Dato che queste sono valutazioni soggettive, letteralmente solo punti di vista, vi opporrò le mie, punto per punto:

1) se tutti quelli che si trovano in una situazione di simile “tensione” dovessero chiamare la polizia, o anche solo degli amici, ci sarebbero pattuglie della polizia o amici e parenti preoccupati che correrebbero avanti e indietro tutto i giorni a tutte le ore;

2) la finestra della Romanelli e la porta d’ingresso erano entrambe state aperte tutta la notte: una corrente d’aria avrebbe facilmente potuto chiudere o accostare la porta della stanza della Romanelli;

3) le tracce non erano tali da generare paura ed in ogni caso ne riparleremo più avanti, a proposito della “teoria generale della pulizia”;

4) questo è magari quello che molti maschietti italiani ritengono che una ragazza dovrebbe fare, probabilmente la Knox non era una tale mammoletta.

Nencini conclude drasticamente “Il comportamento riferito dall’imputata non ha senso comune.” (pagina 151)

Andiamo, signor giudice: è una hippie!

Seriamente: bisogna notare che tale comportamento è stato riferito dalla Knox, che era la sola presente. Avrebbe potuto dire quello che voleva. Se era una bugia, allora era una bugia inutilmente complicata.

Dopo questo saggio di analisi del comportamento umano, passiamo al più concreto campo dei tabulati telefonici.

Essenzialmente Nencini trova da obbiettare o vede indizi di colpevolezza in tutte le chiamate fatte dalla Knox quella mattina.

Elemento focale del suo ragionamento è che la Knox sapeva benissimo che la Kercher non avrebbe risposto: Nencini infatti ritiene che la prima chiamata all’utenza inglese della vittima venne fatta per verificare se qualcuno avesse ritrovato i telefoni. Storicamente tale chiamata causò invece proprio la loro scoperta da parte della signora Lana, ma poi se uno pensa di averli gettati in un burrone in aperta campagna, chi mai dovrebbe averli trovati? Ci ritorneremo.

Dopo la sua prima chiamata alla Romanelli alle 12.08, la Knox chiamò entrambi i numeri della Kercher e Nencini trova da ridire sul fatto che le chiamate (3 secondi per l’utenza italiana e 4 secondi per quella inglese) furono troppo brevi: se l’imputata non avesse saputo che nessuno avrebbe risposto avrebbe atteso più a lungo una risposta.

E’ molto facile replicare che aveva già chiamato il numero inglese per 16 secondi la prima volta, quindi quando non ricevette un’immediata risposta la seconda volta lasciò perdere, mentre per quanto riguarda il numero italiano, Nencini stesso ammette che i tabulati dimostrano che si inserì la segreteria telefonica.

Per il giudice ciò avrebbe dovuto in ogni caso generare preoccupazione, ma cosa avrebbe dovuto fare la Knox: ascoltare una registrazione per un minuto in modo da farlo contento?

In ogni caso Nencini non sente scuse: “la circostanza che le due chiamate sulle utenze in uso a Meredith Kercher non abbiano allarmato l’imputata ha una sola spiegazione plausibile” (pagina 153).

Naturalmente la spiegazione è che essa sapeva che la Kercher era morta, ma quale avrebbe dovuto concretamente essere il livello di allarme della Knox, al di là di quello manifestato nelle sue telefonate a Filomena Romanelli? Mettersi a chiamare lei stessa la polizia? Chiamare istericamente Sollecito, implorandolo di venire in soccorso della gentil pulzella?

Ah no, scusate, Sollecito non avrebbe potuto chiamarlo perché si trovava già da lui, in contrasto con quanto aveva detto alla Romanelli quando l’aveva chiamata alle 12.08, quindi ha chiaramente mentito, o almeno così crede Nencini.

Su cosa basa tale certezza la motivazione?

Sulla copertura delle celle telefoniche: quando la Knox chiamò la Romanelli alle 12.08 il suo cellulare agganciò una torre che serviva l’appartamento di Sollecito ma non il villino: questo, assieme al fatto che la Romanelli testimoniò che la Knox le aveva detto di trovarsi a Via della Pergola, prova incontrovertibilmente che l’imputata ha mentito.

Mi dispiace, signor giudice, ma non è così.

La copertura delle celle telefoniche non è in grado di localizzare un cellulare ad un dato numero civico: al più lo colloca in un’area e anche se quella torre non serviva Via della Pergola, questo non significa che la Knox fosse nell’appartamento di Sollecito. Significa solo che era più vicina all’appartamento di Sollecito, magari a 100 o 200 metri da esso, che a Via della Pergola (la distanza totale è di 400 metri).

E poi, circa la testimonianza della Romanelli, vediamo cosa dice (pagina 155) : “ha detto: <Comunque io adesso sto andando da Raffaele, ho fatto la doccia, vado da Raffaele così lo faccio venire>”.

Non è necessario tirare in ballo la differenza di lingua madre: la prima parte della frase è chiara più che a sufficienza: “adesso sto andando” significa che la Knox era in quel momento in trasferimento tra i due siti e, probabilmente, a quel punto più vicina a casa di Sollecito che al villino.

Nella seconda parte della frase riferita la Knox usa il tempo presente (“vado”): se avesse detto solo “adesso vado” si sarebbe potuto interpretarlo nel senso che doveva ancora lasciare Via della Pergola, ma usato dopo aver specificato la prima volta che era già in movimento è solo un rinforzo al concetto di movimento e anche un italiano potrebbe dire la stessa cosa.

Se si volesse poi obbiettare che tali distinzioni sono troppo sottili se si considera il livello di conoscenza della lingua italiana che la Knox aveva all’epoca, allora la risposta è che se il suo italiano era così povero, nulla può essere dedotto dalle sue parole: né che fosse sulla strada per andare da Sollecito, né che vi fosse già arrivata.

Pertanto la sicurezza di Nencini nel ritenere tale conversazione come prova certa del fatto che la Knox abbia mentito è infondata, e dato che egli ammette che senza questo elemento tutte le sue precedenti considerazioni sulle telefonate della Knox “potrebbero apparire degli esercizi di logica applicati al comportamento umano, che talvolta può non seguire i canoni della logica”  (pagina 156), possiamo tranquillamente dire che solo di tali esercizi si è trattato.

Come ultima annotazione su questo argomento, Nencini sembra anche pensare che se la Knox raccontò alla Romanelli della situazione in Via della Pergola senza esservi fisicamente presente in quel momento, ci deve per forza essere qualcosa di sospetto: “Amanda Marie Knox telefonò a FIlomena Romanelli dalla abitazione di Raffaele Sollecito, rappresentando a quest’ultima di trovarsi presso la villetta di Via della Pergola, e riferendo una realtà che non era sotto i suoi occhi nel momento in cui parlava, ma di cui aveva perfetta conoscenza” (pagina 157).

In realtà, una volta accertato che non aveva detto di trovarsi in Via della Pergola e che aveva detto di stare andando da Sollecito e che ciò è compatibile con la copertura delle celle telefoniche, che non possono localizzare un individuo ad uno specifico numero civico, non c’è nulla di sospetto nel fatto che la Knox parli di qualcosa che non aveva sotto i suoi occhi in quell’esatto momento: ce l’aveva avuta davanti fino a cinque o dieci minuti prima e ben chiara in mente adesso, dunque qual’è il problema?

Il problema è che il sospetto non dovrebbe guidare il ragionamento.

In ogni caso passiamo oltre e seguiamo la motivazione nella discussione di un argomento molto controverso: Sollecito chiamò i Carabinieri prima o dopo l’arrivo della Polizia Postale?

Nel processo di primo grado Massei sentenziò che Sollecito in realtà li aveva chiamati prima dell’arrivo della Polizia Postale, ma Nencini arriva alla conclusione opposta.

Massei aveva deciso diversamente perché aveva accettato la prospettazione difensiva che l’orologio della telecamera del parcheggio vicno alla villetta andava indietro di 10 minuti e perché nessuno dei presenti aveva visto Sollecito fare una telefonata.

Nencini invece ritiene che Sollecito chiamò i Carabinieri solo dopo l’arrivo della Polizia Postale perché:

1) nessun testimone è stato in grado di dire dove si trovasse Sollecito all’atto dello sfondamento della porta della stanza della vittima;

2) la Polizia Postale arrivò alle 12.36 e per un “lungo” periodo non fecero caso a Knox e Sollecito perché non avevano motivo di farlo;

3) c’è anche un argomento “logico”: la Romanelli pregò la Knox di chiamare i Carabinieri alle 12.35, mentre la prima chiamata è delle 12.51; perché ci misero così tanto? Perché in realtà non volevano chiamare e solo l’arrivo della Polizia Postale li costrinse a farlo.

Il primo “motivo” è uno dei più grossi abbagli di Nencini: la motivazione cita attentamente diverse testimonianze per dimostrare che i testimoni potevano dare conto della presenza della Knox dentro l’appartamento all’atto della scoperta del cadavere, ma non di quella di Sollecito. Perciò, è il ragionamento di Nencini, Raffaele effettuò la chiamata in quel momento.

Se fosse vero la scoperta del cadavere dovrebbe essere temporalmente anticipata non di poco e uno potrebbe chiedersi perché nella registrazione delle chiamate non si sente nessun subbuglio, ma in realtà c’è ben di peggio per Nencini in quelle registrazioni: la voce della Knox che dice chiaramente “Via della Pergola”.

Perciò i due imputati si trovavano assieme, almeno durante la prima chiamata, che in questo contesto è la più importante e perciò Nencini ha commesso un errore fattuale.

L’orario delle 12.36 che Nencini fornisce per l’arrivo della Polizia Postale non considera minimamente il ritardo dell’orologio della telecamera, quando poi si ammette controvoglia che avrebbe potuto esserci (mai che si conceda qualcosa tout court alla difesa) un ritardo di 6 minuti, Nencini afferma che anche così la Polizia Postale arrivò prima di quelle chiamate e che nessuno notò gli imputati fare le chiamate perché nessuno prestava loro attenzione.

Questa volta però Nencini deve darci una precisa sequenza temporale, perciò possiamo confutarlo più facilmente: ci furono quattro chiamate in totale, quella della Knox alla madre alle 12.47, quella di Sollecito alla sorella alle 12.50, la prima telefonata ai Carabinieri delle 12.51 e la seconda delle 12.54.

Dunque abbiamo 12 minuti tra le 12.42 e le 12.54 e circa 7 di quei 12 minuti sarebbero stati occupati da telefonate di Knox e/o Sollecito senza che nessuno li vedesse telefonare e se ne ricordasse?

Per giunta in quei 12 minuti bisogna infilarci pure l’ispezione della stanza della Romanelli da parte della Polizia Postale, l’arrivo di Altieri e Zaroli, che pure ispezionarono la stanza essi stessi, l’arrivo della Romanelli e dell’amica Paola Grande, le quali pure ispezionarono la stanza, poi la famigerata querelle sul fatto che la Kercher chiudesse o meno abitualmente la sua porta ed infine la discussione che portò allo sfondamento della porta.

Troppi eventi e troppe telefonate fatte senza che nessuno se ne accorgesse in un intervallo di tempo troppo breve in uno spazio limitato e con fino ad otto persone presenti: tutto decisamente troppo eccessivo per essere credibile.

Circa l’argomento “logico”, vorrei ricordare all’estensore della sentenza di quella frase a pagina 156: tali ragionamenti “potrebbero apparire degli esercizi di logica applicati al comportamento umano, che talvolta può non seguire i canoni della logica”. Ecco, appunto, proprio questo appaiono essere.

In realtà scommetto che gli onorevoli membri della Corte, tanto togati quanto popolari, dentro di sé sapevano benissimo perché la chiamata ai Carabinieri non venne fatta subito dopo che la Romanelli aveva sollecitato la Knox a farla.

Per ragioni logistiche (conoscenza della lingua e del numero d’emergenza) era sicuramente Sollecito a doverla fare e gli italiani non sono poi così entusiasticamente desiderosi di chiamare le forze dell’ordine: in ogni caso è una scocciatura e per di più Sollecito conosceva a malapena Kercher, Romanelli e Mezzetti: non erano fatti suoi in fin dei conti.

La Romanelli non era forse quella che faceva le veci della padrona di casa? Benissimo, che chiamasse lei!

Perciò quello che molto probabilmente successe fu che i due aspettarono fino alle 12.47 con la Knox che spingeva Sollecito a chiamare e Sollecito che esitava, poi la Knox chiamò la madre per chiedere consiglio e fu pure da quest’ultima sollecitata a chiamare la polizia. A quel punto (12.50) Sollecito chiamò l’unico ufficiale dei Carabinieri in cui avesse piena fiducia, ovvero la sorella, la quale pure lei lo spinse a fare quella benedetta chiamata. E finalmente, alle 12.51, Sollecito la fece.

Ma se le cose sono andate così, perché la Knox e/o Sollecito non l’hanno detto chiaramente nelle loro testimonianze, interviste o libri?

E che cosa dovevano dire?
“Non abbiamo chiamato perché non volevamo immischiarci con la polizia?”
Dopo tutto è esattamente ciò di cui Nencini li accusa, anche se per la ragione sbagliata.

Ma c’è anche una prova materiale che dimostra come Nencini si sia sbagliato sui tempi: c’è una serie di foto prese alle 12.48 dalla già citata videocamera del parcheggio che mostrano un uomo vestito con una tuta da ginnastica come quella che Battistelli (uno dei due agenti della Postale) vestiva quel giorno e Battistelli ha ammesso di essere sceso dalla macchina per cercare il villino a piedi.

Se uno aggiunge a quell’orario i sei minuti concessi da Nencini per l’orologio ritardatario della videocamera e un altro paio di minuti per arrivare materialmente al cottage, ottiene le 12.56: un orario perfettamente coerente con le testimonianze degli imputati.

Voglio ora trattare un po’ più in dettaglio il ragionamento di Nencini a proposito del comportamento degli imputati in relazione all’arrivo della Polizia Postale, in modo da evidenziare le sue profonde contraddizioni, talmente profonde da rendere difficile combattere la sensazione di trovarsi davanti ad una logica guidata dal sospetto ben più che dalle prove.

Secondo la sentenza (e dimenticandoci per un attimo di aver appena dimostrato quanto siano erronee tali asserzioni) Knox e Sollecito non chiamarono i Carabinieri dopo essere stati sollecitati a farlo dalla Romanelli perché non volevano essere i soli presenti all’atto della scoperta del cadavere, anzi in realtà il loro obbiettivo era quello che il corpo venisse scoperto “alla presenza di altri testimoni, i quali avrebbero potuto accreditare la simulazione dell’ingresso furtivo dell’aggressore dalla finestra della stanza da letto in uso alla Romanelli (...) l’arrivo inaspettato dell’ispettore Battistelli creò un’improvvisa turbativa. La polizia non era attesa, perché ancora nessuno aveva chiamato le forze di polizia, ed i due imputati non erano a conoscenza delle ragioni dell’intervento. Amanda Marie Knox e Raffaele Sollecito si trovarono quindi di fronte a una situazione che non avevano previsto, che non era pianificata, e che richiedeva di prendere immediatamente delle contromisure. Gli agenti furono quindi indirizzati a vedere ciò che doveva sembrare il teatro di un furto e furono rassicurati sul fatto che erano già stati avvisati i Carabinieri, e che quindi il loro intervento non era assolutamente necessario. Ma i due poliziotti non erano capitati lì per caso, poiché stavano cercando Filomena Romanelli che lì abitava e quindi non se ne andarono.”  (pagina 174)

Se vi ricordate, molte pagine prima nella motivazione Nencini aveva detto che gli imputati avevano bisogno del tempo necessario a preparare la loro “fuoriuscita dalla scena” e adesso li troviamo qui, davanti allo stesso villino, aspettando qualcuno, sia esso la Romanelli o Godot.

Dato che avevano avuto tutto il tempo che volevano per pulire e simulare (almeno quattro ore nella notte e fino a quattro ore nella mattinata) e che per di più la Knox aveva chiamato la Romanelli (che sapeva essere a Perugia) raccontandole di una situazione preoccupante a riguardo dell’effrazione e del fatto che non si trovasse Meredith Kercher (cosa che non avrebbe potuto far altro che spingere la Romanelli ad intervenire), possiamo tranquillamente affermare che alle 12.08 del 2 novembre Knox e Sollecito erano pronti alla scoperta del cadavere e dell’omicidio ed erano pronti e desiderosi di essere presenti ad essa, altrimenti se ne sarebbero potuti andare a Gubbio, o comunque “lasciare la scena”, qualsiasi cosa ciò significasse.

Quindi l’affermazione di Nencini a proposito del “lasciare la scena” è solo un altro vicolo cieco nella motivazione.

Per quanto riguarda l’inatteso arrivo della Polizia Postale, quegli agenti erano testimoni adatti quanto la Romanelli ed i suoi amici ad essere gli “altri” presenti alla scoperta. Anzi, erano ancora meglio: erano agenti di polizia. Perciò non c’era ragione di provare a mandarli via, e in verità furono Battistelli e Marzi a mostrare ben poco interesse per ciò che era al di fuori della questione dei telefoni cellulari.

E una volta che Battistelli aveva espresso i propri dubbi sull’autenticità dell’effrazione sarebbe stato assurdo farli andare via e sperare che la Romanelli fosse più facile da ingannare. Se colpevoli gli imputati sapevano che questo era un caso di omicidio e che ci sarebbe stata un’indagine accurata: tutti coloro che erano stati al villino quella mattina sarebbero stati interrogati e la parola di un agente di polizia avrebbe avuto più importanza di quella della Romanelli.

Dunque non c’era ragione per Knox e Sollecito di cercare di mandar via Battistelli e Marzi o anche solo per essere preoccupati per il loro arrivo inatteso: loro o la Romanelli non faceva molta differenza, dato che tutto era già pronto almeno sin dalle 12.08.

Perciò i fatti mostrano l’incoerenza interna della sentenza, anche accettando la cronologia di Nencini.

Una volta che tale cronologia venga riconosciuta per quel che è, cioé un errore, tutte le cosiddette prove indiziarie di tipo comportamentale o connesse ai telefoni e riguardanti il mattino del 2 novembre crollano definitivamente.


6 - Le indagini genetiche sui reperti

Il primo punto interessante nella lunga, e talvolta più rimarchevole per quantità che per qualità, esposizione di Nencini in merito ai risultati delle indagini genetiche riguarda il luminol.

Essenzialmente si ammette che molte sostanza reagiscono con il luminol oltre al sangue, ma poi si sostiene che, visto che nella fattispecie di questo delitto la scena del crimine era stata teatro di un omicidio con copiosa perdita di sangue, un giudice deve pensare che il luminol abbia reagito con il sangue perché considerare altre sostanze sarebbe un’astrazione non ancorata ai dati processuali.

Nencini ritiene pure che “La circostanza, quindi, che dalle tracce rilevate con la tecnica del luminol sia stato possibile estrarre un profilo genetico, le consegna inequivocabilmente nel novero delle tracce biologiche, in cui è presente DNA umano, quindi quantomeno con esclusione di altre sostanze fuorvianti.” (pagina 187-188)

Sembrerebbe anche ragionevole, anche se solo parte delle tracce evidenziate dal luminol hanno rivelato un profilo genetico, se non fosse che si trascura completamente che tale DNA avrebbe potuto essere preesistente, dato che la Knox e la Kercher avevano vissuto assieme in quell’area ristretta per settimane.

Abbiamo visto in precedenza come Nencini consideri strana l’assenza di tracce della Knox non connesse al delitto in un luogo dove aveva vissuto per settimane. Avrebbe potuto, e, invero, tenendo a mente il principio della presunzione d’innocenza, dovuto, ragionare nel senso opposto: le indagini hanno in realtà rivelato un buon numero di tracce della Knox che non sono correlate all’omicidio, come quelle evidenziate dal luminol.

Una risposta più scientifica avrebbe potuto essere ottenuta tramite un’accurata analisi del substrato, cioè mediante un vasto campionamento della casa per accertare la frequenza della presenza dei DNA della Kercher e della Knox e di loro misture. Ma non è stato fatto.

Tuttavia l’affermazione di Nencini relativa al significato delle tracce positive al luminol sulla scena di un delitto con abbondante spargimento di sangue sarebbe anche stata di buon senso, se non fosse per un “piccolo” dettaglio: nemmeno una di quelle tracce è risultata positiva al test del TMB.

Ora, ci sono stati accesi dibattiti in merito alla sensibilità relativa del TMB rispetto al luminol. peraltro più in Internet che in aula, dove il TMB è stato presentato molto più favorevolmente di quanto i suoi detrattori sulla Rete vorrebbero, ma, senza entrare in questa interminabile diatriba, vorrei semplicemente evidenziare due punti.

Il primo è che se è così “naturale” che in un ambiente quale la scena di un delitto con “copioso” spargimento di sangue ciò che reagisce al luminol venga considerato sangue semplicemente per logica, mi sembra un po’ strano che il TMB abbia sistematicamente fallito nel rivelare quello stesso “copioso” sangue, senza dare nemmeno un risultato positivo che sia uno su quelle impronte.

In secondo luogo, ma probabilmente nel contesto di un ricorso in Cassazione più importante del primo, Nencini omette totalmente di parlare del TMB (ho fatto una ricerca di testo su una copia OCR della sentenza e non ho trovato una sola occorrenza): poiché i risultati negativi dei test del TMB costituiscono una prova scientifica in favore degli imputati, ignorarli è peggio che liquidarli con un ragionamento sbagliato.

E poi, infine, che dire dei reperti 93 e 95, ambedue tracce positive al luminol in casa di Sollecito (una nel bagno e una in camera da letto) mostranti un profilo DNA misto della Knox e di Sollecito? Si sono pugnalati l’un l’altra o Amanda ha pugnalato Raffaele per poi camminare sul suo sangue, oppure è stato Raffaele a pugnalare Amanda e a camminare sul sangue di lei? Stranamente nessuno dei giudici che hanno affrontato il caso ha dato mostra di capire che tali reperti demoliscono l’equazione DNA + positivo al luminol = sangue = delitto.

Passiamo ora alle tracce di sangue nel bagno piccolo.
Il DNA della Knox e della Kercher è presente come mistura in tre punti: nel lavandino, nel bidet e su una scatola di cotton fioc.

Nencini non crede che tali misture possano essere dovute al fatto che entrambe usavano quel bagno, perché per lui è difficile immaginare che il sangue diluito sia caduto esattamente nei punti in cui precedente la Knox aveva lasciato il suo DNA e perché “la perdita di sostanza biologica utile alla estrazione del DNA non è un fenomeno che accade con frequenza normale e con regolarità negli ambienti che una determinata persona frequenta (sugli oggetti di uso comune e sugli indumenti, il ragionamento è ovviamente diverso, venendo i predetti a contatto diretto con l’epidermide). Per la perdita di materiale biologico utile alla estrazione del DNA, occorre comunque una azione di sfregamento consistente, che lasci cadere parti biologicamente significative” (pagina 189).

Credo che molti esperti non sarebbero d’accordo sul fatto che la perdita di DNA nell’ambiente sia un evento così raro, ma non è quello il principale errore di Nencini in questo contesto.

Nencini (e molti altri prima di lui) pensano che lavarsi via il sangue dalla pelle debba richiedere un’azione di frizione comparabile a quella necessaria a lavare via la vernice acrilica, mentre, se il signor giudice si è mai tagliato facendosi la barba, dovrebbe sapere che di solito basta versare acqua sulla pelle.

Così pure non sembra rendersi conto che i “punti” nel lavandino e nel bidet erano in realtà ampie aree, perché i campioni sono stati raccolti con ampi movimenti del tampone, inoltre non sembra accorgersi che la scatola di cotton fioc e in realtà proprio un “oggetto di uso comune che viene a contatto diretto con l’epidermide” . Invero pare pure dimenticarsi di quelle tracce di sangue sulla cornice della porta del bagno e sul coperchio del water dove non si è trovato alcuna mistura di DNA: per puro caso proprio posti che la Knox non era solita toccare.

Con queste considerazioni in mente è anche facile replicare ad un altra delle argomentazioni di Nencini, ovvero se la persona che si lavò nel bagno non era la Knox, perché non vi lasciò il suo DNA?

Perché versò semplicemente dell’acqua sul sangue, senza grandi frizioni, e per di più era la prima volta che usava quel bagno.

Inoltre, se per Nencini il DNA può provenire solo da qualche azione di frizione fatta per rimuovere lo sporco (sia esso sangue o altro) dalla pelle, allora la Knox ha fatto proprio quello in quel bagno per settimane.

Sì, certo, l’imputata testimoniò di aver lasciato il bagno “pulito” nel pomeriggio del primo novembre, ma è alquanto bizzarro che proprio la persona accusata di essere pigra nell’igiene personale e nelle pulizie di casa sia, quando conviene, eletta a miglior giudice di cosa sia la pulizia. Si passa poi dal bizzarro al ridicolo se per “pulito” si intende al livello del DNA.

Bisogna anche notare che, secondo la motivazione, tali tracce avrebbero dovuto sopravvivere ad una pulizia che gli imputati impiegarono “molto tempo” per portare a termine, anche fino a otto ore: la Knox era davvero così negata per le pulizie di casa?

In ogni caso la cosa che trovo più spiacevole è che, in tutti i vari processi, la discussione sul fatto che il rilascio di DNA nell’ambiente sia evento comune o meno non sia mai andata oltre il livello di ragionevoli congetture. Sì, i periti hanno detto la loro, ma hanno mai presentato dei numeri? Intendo dire, per caso la Stefanoni, tanto per fare un nome, ha mai detto “secondo questo studio, un azione frizionante esercitata con una forza di 10 newton, pelle su pelle, ripetuta 10 volte produce il rilascio di 100 picogrammi di DNA umano”?

Mai letto qualcosa del genere e mi sarebbe piaciuto tanto leggerlo, perché avrebbe voluto dire che non si pretende di mandare la gente in galera sulla base di valutazioni puramente qualitative, per di più tutt’altro che indiscutibili.

Ci sarebbe stato un modo semplice per avere almeno una risposta sperimentale alla domanda se il DNA misto in un ambiente condiviso sia comune o no: prendere campioni dalle stesse aree del bagno grande e vedere se i DNA di Romanelli e Mezzetti vi si potevano trovare sotto forma di mistura.
La disponibilità dei profili di riferimento della Romanelli e della Mezzetti sarebbe stata comoda, e li si sarebbe potuti ottenere, se fossero stati chiesti con determinazione (nel caso di Yara Gambirasio sono stati raccolti 18000 profili), ma in ogni caso penso che gli esperti della Polizia Scientifica sarebbero stati in grado di identificare una mistura come tale, anche senza i profili di riferimento.

Torniamo a seguire Nencini: è il momento di una breve analisi dell’impronta sul tappetino del bagno. Per adesso la motivazione dice solo che il fatto che l’impronta sia “orfana” (cioè non c’erano altre impronte insanguinate che andassero dalla scena del crimine fino al tappetino) prova che “qualcuno si dedicò ad una intensa attività di pulitura degli ambienti dalle tracce dell’omicidio stesso, pulitura che interessò ovviamente il pavimento ma non poté interessare il tappetino celeste sul quale il sangue era stato assorbito, stante la natura porosa del materiale di fattura”  (pagina 191).

C’è da restare veramente di stucco al pensiero che gli imputati, avendo a loro disposizione parecchie ore per pulire nient’altro che il bagno piccolo, il corridoio e, a tutto concedere, parti delle camere di Romanelli e Knox, siano stati capaci di lasciare tracce visibili a occhio nudo nel bagno, tracce evidenziabili dal luminol in molti posti e soprattutto a non trovare un modo per pulire il tappetino mettendolo in lavatrice o buttandoci sopra della candeggina. Alla peggio avrebbero anche potuto farlo sparire.

In realtà l’idea stessa che una pulizia così inefficiente sia potuta durare molte ore lascia trasecolati: una pulizia veloce ed altamente efficiente la si poteva ottenere semplicemente versando secchiate su secchiate di candeggina diluita ( o altro detergente, tipo Lysoform) su tutte le superfici e poi passando il mocio. In questo modo tutta la casa, inclusa la stanza della Kercher, avrebbe potuto essere pulita in un tempo molto inferiore a quello allocato da Nencini per le operazioni di pulitura, forse anche meno di un ora con due persone al lavoro.

Perciò la pretesa che, senza dover neppure confrontarsi con l’area più difficile da pulire, ovvero la stanza dell’omicidio, gli imputati abbiano impiegato così tante ore per ottenere un risultato così misero è alquanto poco credibile. Ancor di più se si considera l’improbabile variabilità della qualità di tale pulizia: secondo Nencini solo le impronte maschili di piede nudo ed insanguinato che andavano fino al tappeto sono state perfettamente eliminate. E’ un po’ strano che qualcuno che sapeva come cancellare perfettamente quelle lì, poi non sia stato in grado di applicare la stessa tecnica alle altre.

Inoltre, se la stanza della Kercher non è stata pulita e le impronte insanguinate degli imputati sono state più o meno efficientemente cancellate fuori di essa, è curioso che nessuna impronta insanguinata attribuibile alla Knox o a Sollecito e con tracce del loro DNA sia stata trovata dentro la stanza, dove tali impronte avrebbero dovuto originarsi.

Più uno ci pensa e più dubbi vengono fuori.

Nencini attribuisce poi particolare importanza al reperto 177, un’altra traccia evidenziata dal luminol di “presunta sostanza ematica” (anch’essa negativa al TMB come tutte le altre) trovata nella stanza della Romanelli e che presenta un profilo genetico misto della Knox e della Kercher. Dovrebbe essere a suo giudizio particolarmente importante perché la stanza della Romanelli non era abitualmente frequentata dalla Knox e dalla Kercher e perché tale stanza è la scena (sempre secondo la sentenza) della simulata effrazione. SI tratta molto più di una macchia amorfa che di un’impronta di piede.

Anche senza considerare che i periti della difesa vi hanno visto anche un terzo profilo genetico, sconosciuto, il valore di tale reperto è diminuito dalla limitata entità dei campioni prelevati: sembra alquanto improbabile che la Romanelli e la Mezzetti non abbiano lasciato alcuna traccia del proprio DNA nelle loro stesse stanze (neanche sotto forma di profili sconosciuti). Chiaramente non si sono raccolti abbastanza campioni, indipendentemente dal loro numero (460 ci dice Nencini), per permettere di concludere che se si trova del DNA misto esso debba essere per forza essere collegato all’omicidio. Ancora una volta scontiamo la mancanza di un’adeguata analisi del substrato: essenzialmente non possiamo sapere quante occorrenze di misture del DNA di tutte e quattro le inquiline (in varie combinazioni) ci fossero in giro per la casa.

Inoltre, un’attenta analisi del substrato comporterebbe anche la raccolta di campioni in un’area vicina a quella reagente con il luminol, ma fuori di essa, per determinare se un dato DNA (misto o meno) presente all’interno dell’area reattiva al luminol sia anche presente fuori di essa (con ciò significando che la reazione del luminol non è dovuta alla sostanza che fornisce il profilo genetico) o meno.

In ogni caso l’analisi da parte di Nencini del reperto 177 ci dà se non altro un’indicazione di quale sia la sua ricostruzione del dopo omicidio: egli sembra (ma solo fuggevolmente, e solo per tornare nuovamente ad accennare alla simulazione come avvenuta più tardi nella notte nel resto della motivazione) in qualche modo suggerire che la simulazione fu eseguita subito dopo l’omicidio, anche se ci si può chiedere se l’urgenza primaria di gente coperta di sangue non dovrebbe essere piuttosto quella di lavarsi e anche se a pagina 146 si era detto che gli autori dell’omicidio avevano lasciato la casa “immediatamente” dopo di esso.

Una volta finito con le impronte (per ora), arriva il pezzo forte: le tracce di DNA sul coltello e sul gancetto del reggiseno.

Nencini inizia occupandosi della questione della contaminazione, sicuramente una questione fondamentale per quanto concerne questi due elementi di prova.

Prima di trattare le opinioni di Nencini sulla contaminazione, c’è una frase che devo citare, perché tornerà utile più avanti nella disamina: “nella sede del processo penale, di fronte ad un’evidenza probatoria ovvero indiziaria (...) occorre che quest’ultima sia sottoposta sempre al vaglio critico del giudicante, che consiste nella valutazione dell’evidenza del fatto accertato, e del suo significato nel contesto complessivo delle emergenze indiziarie o probatorie  (pagina 196).

Detto questo possiamo affrontare la questione della contaminazione: Nencini ammette che pretendere che sia la difesa a dover dimostrare la contaminazione costituirebbe un’inaccettabile capovolgimento dell’onere della prova. Ma afferma anche che chi asserisce che c’è stata contaminazione ha l’obbligo di individuare specifici fatti che concretamente abbiano causato l’asserita contaminazione: il dubbio non si può basare su pure speculazioni o deduzioni di “carattere possibilistico”.

Posso anche essere d’accordo, in linea di principio. Il punto però è cosa costituisca un “fatto specifico” che soddisfi le richieste di Nencini.

“Occorre che il giudice non si arresti di fronte alla mera allegazione di carattere probabilistico od alla congettura, avendo l’obbligo di verificare in concreto, ed in relazione ad ogni singolo reperto, se lo stesso possa essere stato viziato da elementi accidentali contingenti, ovvero dall’opera sconsiderata di coloro che, a vario titolo, vi siano venuti in contatto (...) E quindi operando una valutazione concreta di ciò che è ragionevole (e documentabile) che possa essere accaduto nelle condizioni spazio-temporali date, e non di ciò che in astratto è possibile che sia accaduto.” (pagina 196-197)

Ci sono un paio di problemi con questa mentalità. Primo, una completa “documentazione”, particolarmente video, di ogni singolo passo della raccolta e conservazione dei due reperti non è disponibile. Per quello che riguarda il gancetto del reggiseno uno dovrebbe poi anche aggiungere i 46 giorni di “non conservazione”. Secondo, la contaminazione del DNA, già con le tecnologie del 2007 e ancora di più oggi, è qualcosa che non può essere rilevato a occhio nudo (tranne casi veramente grossolani) e che non è limitata al caso di qualcuno che materialmente tocca l’oggetto A e poco dopo l’oggetto B. Il DNA può davvero volare e il trasferimento multiplo è una realtà che appena oggi si inizia ad analizzare in maniera quantitativa, con veri esperimenti.
Perciò affrontare la contaminazione del DNA come se fosse un trasferimento macroscopico di sangue e tessuti dalla vittima ad un qualche oggetto è un metodo che non considera la vera natura del fenomeno, che per di più non è comunque ancora ben compreso e di sicuro sottovalutato, specialmente per quello che riguarda il trasferimento multiplo.

Quindi, anche se Nencini prova a confutare ogni possibilità di contaminazione per entrambi i reperti attraverso l’esame di possibili cause evidenti di essa nel corso della loro repertazione e maneggio, per me questo è un metodo che era forse adeguato ai livelli di sensibilità dei kit per il DNA della metà degli anni 90, se non addirittura per l’era antecedente all’uso forense del DNA.

Per quello che riguarda il coltello, per esempio, Gubbiotti, l’agente di polizia che maneggiò il coltello in Questura dopo il suo sequestro a casa di Sollecito nella mattinata del 6 novembre, quello stesso mattino era stato al villino. Pur essendosi cambiato tutti i guanti che voleva, tuttavia potrebbe aver avuto tracce del DNA della Kercher sui suoi abiti. Lo stesso vale per la scatola da agenda “nuova” dove Gubbiotti mise il coltello: chi (presumibilmente senza guanti) l’aveva toccata prima? Questa persona era stata al villino?

Sì, queste sono pure speculazioni possibilistiche del genere che Nencini ha escluso a priori, ma io ritengo che il suo approccio sia semplicistico: la contaminazione è in realtà sempre una possibilità per quanto riguarda il DNA e tale possibilità è inversamente proporzionale alla quantità di DNA trovata in una traccia.

Perciò la contaminazione dovrebbe essere considerata sempre come possibile (il che non significa che sia realmente avvenuta) e più possibile quando i protocolli per la raccolta e la conservazione dei reperti non vengono strettamente rispettati, senza che nemmeno questo tuttavia renda automaticamente la contaminazione una realtà.

Però si deve tenere a mente che è una possibilità, poi, al momento opportuno nel processo di valutazione delle prove, si deve decidere se, collocando l’elemento possibilmente contaminato nel contesto di tutti gli altri elementi probatori e particolarmente degli altri elementi noti (non dipendenti dal DNA) riguardanti quel reperto, la possibilità di una contaminazione è diminuita o annullata da questi altri elementi, o se piuttosto non sia incrementata fino a farla diventare una concreta probabilità.

Questo è ciò che considero una corretta valutazione osmotica delle prove, ed è anche in sostanza quello che dice Nencini (senza che però se ne veda una chiara applicazione) in quel passo tratto dalla pagina 196 della motivazione da me citato più sopra.

Bisogna anche dire che per quello che riguarda la traccia 36B sul coltello, Nencini trascura due possibili percorsi di contaminazione che derivano direttamente dalla sua ricostruzione del delitto e che considereremo quando ci occuperemo di essa.

Per quello che riguarda la contaminazione incrociata in laboratorio della 36B voglio solo dire che un intervallo di 6 giorni tra l’ultimo campione con DNA della Kercher esaminato prima del coltello e l’analisi del coltello stesso non può escludere QUALSIASI contaminazione: riutilizzare la provetta sbagliata (una già usata per un campione della Kercher e poi dimenticata in un angolo) dopo sei giorni sarebbe più che sufficiente a permettere alla contaminazione di superare quell’ostacolo, ed in verità qualsiasi intervallo temporale, senza lasciare traccia di contaminazione in altri campioni.

Il gancetto del reggiseno è tutta un altra storia.

In questo caso abbiamo un campione indiscutibilmente dimenticato per 46 giorni sul pavimento della scena del crimine (anche Nencini ammette a pagina 203 che questa è stata “un’azione discutibile sul piano professionale”) e sappiamo che, prima che venisse finalmente raccolto e repertato il 18 dicembre, vi furono due altri sopralluoghi da parte della polizia (pagina 202).

Nencini cerca in tutti i modi di dimostrare che la contaminazione del gancetto era impossibile o “assolutamente improbabile”, ma fa molte ipotesi restrittive: considera come possibile fonte contaminante del DNA di Sollecito solo un mozzicone di sigaretta (almeno inizialmente) e limita la possibilità di un evento contaminante al 18 dicembre.

Il gancetto rimase sul pavimento per 46 giorni e la gente si mosse tutto attorno dal 2 novembre al 6 novembre e poi ancora in quelle 2 altre ispezioni. Ci sono fotografie che mostrano come l’interno dell’alloggio, inclusa la stanza della Kercher, fu totalmente messo a soqquadro in questo intervallo di tempo.

In seguito Nencini ammette (molto di malavoglia) che ci sarebbe potuto essere del DNA di Sollecito non rilevato nell’appartamento, perché la raccolta dei campioni aveva interessato un numero limitato di zone (come ho più volte detto in precedenza), ma poi esclude ugualmente che la contaminazione sia avvenuta con un paio di dubbie argomentazioni (peraltro correlate tra loro).

Nencini afferma che se davvero qualcuno avesse trasferito quel DNA da un qualche posto al gancetto metallico dove venne trovato, allora lo stesso agente dovrebbe aver: 1) anche trasferito quello stesso DNA sul vicino tessuto e 2) su altri reperti recuperati quello stesso giorno (il 18 dicembre, perché per Nencini la contaminazione poteva avvenire solo quel giorno).

Tali ragionamenti sollevano più di una perplessità, forse andrebbero bene per una qualche “copiosa” quantità di sangue, ma se applicati al DNA comporterebbero che: 1) la contaminazione può avvenire molto spesso, visto che una fonte secondaria come un guanto potrebbe contaminare diversi campioni e 2) che più tracce attribuibili ad un dato soggetto si trovano, maggiore è la probabilità che sia avvenuta una contaminazione.

Paradossalmente, come ha fatto notare un commentatore su Internet, con questa logica le tracce lasciate da Guede dovrebbero essere considerate un sicuro prodotto di contaminazione.

Più realisticamente, qualsiasi siano stati la fonte e l’agente, il DNA contaminante, che non era in quantità macroscopiche, raggiunse il gancetto e non il tessuto: avrebbe potuto succedere il contrario, ma in questo universo è toccato al gancetto.

Se appare improbabile che ci fosse del DNA di Sollecito da qualche parte nell’appartamento, bisogna considerare che il DNA della Knox venne trovato in tre punti (a parte il coltello) a casa di Sollecito e anche là certamente la ricerca non fu tale da coprire ogni possibile superficie.

La Knox frequentò la casa di Sollecito per una decina di giorni (fino al primo novembre solo part-time e anche dopo di allora dividendosi tra l’appartamento e la Questura), mentre Sollecito visitò il villino quattro o cinque volte in circa una settimana, quindi, anche se la Knox fu più spesso nell’appartamento di Sollecito di quanto Sollecito fosse al cottage, le rispettive presenze nell’appartamento dell’altro o dell’altra sono approssimativamente comparabili, almeno come ordine di grandezza, e quindi la presenza di una certa quantità non rilevata di DNA di Sollecito al villino non è una “pura speculazione” ma una probabilità derivante da fatti noti e documentati.

In ogni caso Nencini ritiene di aver felicemente dimostrato l’inesistenza della contaminazione e si limita a spendere poche parole per i protocolli internazionali.

Egli considera la “asserita” violazione dei protocolli internazionali riguardanti la repertazione delle prove una “svalutazione, che a tratti appare obiettivamente preconcetta, dell’operato della polizia scientifica in questo processo”. (pagina 206).

Segue inevitabilmente la lode alle alte capacità professionali della Polizia Scientifica e dei RIS, i quali sono almeno altrettanto validi delle “migliori intelligenze scientifiche che hanno fornito in questo processo il loro contributo in qualità di consulenti delle parti processuali” (pagina 206).

E così sia, d’altronde era evidente già nella sentenza della Cassazione del 2013 che la protezione della reputazione dei reparti scientifici delle forze dell’ordine era un tema di primaria importanza.

Comunque per Nencini “qualora non sia stata accertata incidenza negativa sul dato processuale, anche la affermata violazione dei protocolli internazionali in materia di perquisizione di immobili e di repertazione dei campioni da sottoporre ad analisi è un elemento processuale privo di valore” (pagina 207).

Tutto dipende da come ciò è stato accertato, visto quel che si è detto sopra circa la visione di Nencini sulla possibilità di una contaminazione.

Il coltello (reperto 36)

Il coltello sequestrato a casa di Sollecito è per questo caso ciò che la “collinetta erbosa” è per l’assassinio di JFK, quindi per evitare di dover ripetere qui moltissimi dettagli, assumerò che il lettore conosca già la maggior parte dei fatti e delle leggende relative a tale coltello. In caso contrario su Internet si può trovare tanto materiale da scriverci un volume di enciclopedia.

La traccia A (36A) è il DNA della Knox sul manico e significa solo che essa maneggiò il coltello una o più volte prima del suo sequestro.

La traccia B (36B) è il presunto (dall’accusa) DNA della vittima prelevato (secondo la Stefanoni) da delle striature presenti vicino alla punta della lama.

La traccia I (36I) è la “nuova” traccia repertata dalla Prof. Vecchiotti durante il secondo processo e esaminata dai RIS durante il processo di FIrenze.

La traccia 36B è ciò che rende questo coltello la “collinetta erbosa” del caso: secondo l’accusa è costituita dal DNA della vittima, mentre per la difesa ed i periti della Corte d’Appello di Perugia durante il secondo processo non lo è.

Nencini inizia a discuterne affermando che per lui la decisione della Stefanoni di non dividere il campione per effettuare anche test volti all’accertamento della natura della traccia fu una decisione giusta, poiché, data l’esiguità (mai quantificata in picogrammi) della traccia, dividerla avrebbe significato rischiare di non avere alcun profilo di DNA.

Inoltre, non conoscerne la natura non inficia l’attribuzione del profilo del DNA (anche se sapere se era fatta di sangue o di sudore qualche differenza l’avrebbe fatta). In ogni caso il test del TMB venne eseguito sulla stessa area del coltello dove era stata prelevata la traccia e risultò negativo.

Dopo di che si viene a trattare l’aspetto cruciale della traccia 36B: essa fu oggetto di un’unica amplificazione, in violazione dei protocolli internazionali per l’analisi di piccoli quantitativi di DNA (Low Copy Number DNA o LCN DNA).

Nencini afferma che anche se i picchi ottenuti con le corse elettroforetiche (ne vennero effettuate due) erano bassi, i “controlli negativi dell’amplificazione” mostravano che c’era molto poco rumore di background. Al fine d’introdurre l’argomento, bisogna dire che i controlli negativi della traccia 36B sono il tiratore dietro la staccionata sulla collinetta erbosa: alcuni dicono che c’era, altri dicono di no, alcuni addirittura dicono che la sua esistenza è stata nascosta da un complotto.

Nencini prosegue citando l’opinione del Prof. Novelli (consulente della Procura durante il secondo processo) a proposito della necessità di avere (almeno) una doppia amplificazione e le parole di Novelli sono che sì, ci sono i protocolli a dire questo, ma che poi l’analisi dipende dall’esperienza e dalla capacità dell’operatore e che bisogna ottenere comunque il profilo e poi giudicarne la qualità, “altrimenti mettiamo in discussione tutte le analisi del DNA che abbiamo fatto dal 1986-1987 ad oggi, almeno nel nostro Paese” (pagina 213).

Ho già espresso altrove le mie perplessità su di un metodo scientifico che si affida all’esperienza dell’operatore, mentre per quanto riguarda la seconda affermazione lascio il giudizio al lettore.

La motivazione continua affermando che, sebbene i picchi fossero bassi, solo un paio di alleli risultano mancanti rispetto al profilo di riferimento della Kercher e che essendoci un singolo contributore l’attribuzione del profilo è più facile rispetto ad una mistura (una tautologia), quindi “la attribuzione del profilo genetico a quello di Meredith Kercher, operata dalla polizia scientifica, appare sorretta da solida base scientifica e da una corretta interpretazione del risultato ottenuto dalle analisi di laboratorio” (pagina 214).

Tuttavia “per aversi una attribuzione certa, i protocolli internazionali richiedono quantomeno la ripetizione dell’amplificazione, ciò che nel caso di specie non è stato possibile per la scarsa consistenza del campione” (pagina 214).

Che dire allora della traccia 36B?

La sentenza gioca un po’ con le parole: l’attribuzione alla Kercher è “univoca”, ma anche “non rassicurante”, perciò non può essere da una parte considerata “prova sicura” ma d’altra parte nemmeno giudicata “non ammissibile”.

Nencini quindi cita e censura l’affermazione del Prof. Tagliabracci (consulente della Knox) durante il secondo processo, che riteneva le amplificazioni multiple indispensabili per il DNA Low Copy Number.

Nencini ifatti obbietta che “questa posizione, se indubbiamente corretta su un piano scientifico di carattere generale in ordine al quale il Giudice non ha titolo per contraddire, non tenga in adeguato conto il processo di formazione della prova in sede penale” (pagina 216).

Si può essere d’accordo che un’aula di tribunale non sia un laboratorio, purché non si pretenda poi di ammantare del prestigio e dell’autorità della scienza ciò che non segue le regole della scienza.
Perciò alla fine, per Nencini, la traccia 36B è un elemento indiziario valido come tutti gli altri, certamente insufficiente se preso da solo, ma in grado di aiutare il giudice a giungere quanto più vicino possibile all’accertamento della verità storica (nientedimeno), se usato assieme agli altri indizi (cioé osmoticamente).

Mi occuperò nelle Appendici di questi due termini (“verità storica” e “osmotico”).

Segue poi il rigetto delle obiezioni della Prof. Vecchiotti in merito alla traccia 36B, rigetto in larga parte basato su quanto si è già visto sopra. C’è tuttavia un punto che devo criticare in dettaglio.
Nencini dice che i consulenti degli imputati dovrebbero aver riportato in dettaglio le possibili cause della contaminazione durante i sopralluoghi e la raccolta dei reperti (coltello incluso). Ebbene, fino a circa le 12 del 6 novembre non c’erano imputati e quindi neppure loro consulenti.

Si passa poi alla vexata quaestio dei controlli positivi e negativi (pagine 220-221): Nencini afferma che la Dottoressa Stefanoni li fornì durante l’udienza preliminare davanti al GUP Micheli del 4 ottobre 2008, poi che erano stati richiesti ed ottenuti da Novelli durante il secondo processo, mentre il ricorso in Cassazione della Procura Generale di Perugia afferma a pagina 69 che erano stati forniti (a questo punto “anche”) dalla pubblica accusa durante l’udienza del 30 luglio 2011.

Visto che sono stati così abbondantemente forniti, tali controlli dovrebbero certamente essere disponibili tra gli atti del processo. Ecco, io avrei particolarmente apprezzato se la sentenza fosse stata in grado di dire che la Corte di Firenze aveva acquisito certezza della loro esistenza con i propri occhi: tutti si sarebbero sentiti rassicurati e sarebbero finite le speculazioni.

Comunque sia, nel contesto delle critiche di Nencini alla Prof. Vecchiotti, alquanto aspre, un posto particolare è riservato alla traccia 36I e al fatto che essa non la analizzò.

L’essenza dell’argomentazione di Nencini è che la perizia dei RIS ha dimostrato che poteva essere analizzata e per di più che la tecnologia per farlo era disponibile nel 2011.

Sì, c’era, ma era alquanto nuova (commercializzata nel 2010) e la Vecchiotti preferì un approccio conservativo, approvato da Hellmann e demolito dalla Cassazione, da Nencini e da molti altri.

Per quel che mi riguarda io ragione sempre come se dovessi essere io l’imputato e in tal frangente vorrei che solo metodi e tecnologie con un ampio margine di affidabilità, testato nel tempo, venissero impiegati per analizzare le prove.

Altri possono approvare l’impiego di roba che non sarebbe accettata in un articolo su di una rivista scientifica (come la traccia 36B) per condannare la gente a decenni di reclusione, almeno fino al giorno in cui non gli capiterà di trovarsi davanti ad una giuria di loro pari, ovvero di gente che la pensa come loro.

Il gancetto del reggiseno (reperto 165B)

Anche nel caso del gancetto vi fu una sola amplificazione, ma dato che, secondo la Stefanoni, la quantità di DNA era “almeno” o “circa” 1 nanogrammo (entrambe le parole sono impiegate a pagina 238), esso è affidabile anche in mancanza di una doppia amplificazione.

A pagina 241 Nencini afferma che la Stefanoni decise di non tentare di determinare la natura della sostanza presente sul gancetto perché voleva focalizzarsi esclusivamente sul tentativo di estrarre un profilo genetico.

Tale giustificazione potrebbe essere accettabile per una traccia LCN come la 36B, ma sembra alquanto stiracchiata per una traccia con una quantità molto più abbondante di DNA, a meno che non si ammetta che essa fosse considerata potenzialmente LCN per alcuni dei contributori della mistura (anche se prima dell’amplificazione non si poteva sapere che si trattava di una mistura).

Ma Nencini non ha molti dubbi sulla natura della traccia: “Avuto riguardo peraltro all’assenza di evidenza ematica, ed alla posizione ove il DNA è stato repertato (gancetto di apertura\chiusura del reggiseno) la circostanza che possa trattarsi di cellule epiteliali è molto più che una probabilità.” (pagina 241-242)

D’altra parte egli ammette che sul gancetto vi è la presenza di altri contributori oltre alla Kercher ed a Sollecito, ma subito dopo ribadisce che questo fatto non invalida il risultato ottenuto dalla Polizia Scientifica, ovvero la presenza del DNA di Sollecito sul gancetto.

“Ma la vera questione rilevante in giudizio non è rappresentata dalla presenza di più contributori nella traccia mista di DNA ricavata dal gancetto di chiusura del reggiseno indossato da Meredith Kercher le sera in cui fu assassinata, ma dalla presenza del DNA di Raffaele Sollecito.
Ed infatti Meredith Kercher, per quel poco che è possibile ricavare dalle testimonianze in atti, era una ragazza normalissima, che aveva intrecciato da poco una relazione sentimentale con uno dei ragazzi che abitavano al piano seminterrato della villetta, che quindi è ragionevole ritenere avesse una vita sessuale normale. Ciò può far ritenere quindi plausibile che sul gancetto del reggiseno vi avesse potuto lasciare traccia anche il fidanzato della ragazza; così come è ragionevole ritenere che vi potesse essere stato depositato del DNA da parte di qualche amica della ragazza che avesse avuto modo di toccare il gancetto dell’indumento.”  (pagina 243)
Qui c’è un problema tecnico: la Vecchiotti (e Nencini acconsente su questo punto a pagina 242) ha stabilito che ci sono almeno altri tre o quattro contributori oltre a Sollecito nel profilo dell’aplotipo Y e le donne non possono contribuire a quel profilo, poiché non posseggono il cromosoma Y.

Di conseguenza Nencini non può spiegare la presenza di almeno due altri contributori oltre a Sollecito ed eventualmente Silenzi (il ragazzo della Kercher) e tale presenza viene generalmente considerata la miglior prova che il gancetto del reggiseno è stato contaminato durante i 46 giorni in cui venne dimenticato sul pavimento nel villino.

Nencini trova anche il tempo per rimproverare Tagliabracci per aver sostenuto che la Stefanoni applicò un approccio sospettocentrico all’analisi dei profili: secondo lui, oltre ad essere quasi un’offesa al ruolo della Stefanoni come pubblico ufficiale, è praticamente inevitabile agire in questo modo in un processo penale ove vi siano dei sospetti.

E così sia, ma in un certo senso l’intera investigazione, dal punto di vista scientifico, fu certamente almeno “limitata ai sospettati”: i profili di riferimento del DNA vennero presi solo dai sospettati e dalla vittima e le impronte plantari di riferimento dai soli sospettati.

Non è abituale prendere i profili di riferimento di tutti coloro che sono soliti frequentare una scena del crimine, anche solo per “escluderli dai sospettati”?

Devo aver visto troppi episodi di CSI.

La motivazione si libera poi, qualificandola come “obbiettivamente fragile” dell’osservazione di Tagliabracci che per quello che riguarda i contributori secondari (cioè escludendo la Kercher), la quantità di DNA sull gancetto del reggiseno potrebbe essere considerata low copy number, richiedendo perciò una doppia amplificazione che non venne fatta dalla Stefanoni.

In realtà se uno accetta il rapporto di 1 a 8 citato dalla sentenza (pagina 248) e il nanogrammo citato dalla Stefanoni (per quanto con un po’ di approssimazione), si ottiene che gli altri contributori (tutti assieme) contribuiscono per un nono di un nanogrammo, ovvero 111 picogrammi, al DNA della traccia. Anche se Sollecito sembra essere il contributore maggiore tra quelli secondari, è ragionevole stimare che il suo contributo non è superiore a 100 picogrammi, e nel 2007 tale quantità era normalmente considerata essere low copy number.

In conclusione Nencini sentenzia che “può dirsi accertato giudizialmente che il DNA di Raffaele Sollecito era presente sul reperto; reperto che quindi fu manipolato dall’imputato la sera dell’omicidio” (pagina 250).

La seconda parte della frase può discendere dalla prima solo se si accetta la maniera di Nencini di affrontare il problema della contaminazione per quanto riguarda il gancetto del reggiseno.

7 - Le impronte di calzatura e le orme plantari

L’analisi delle impronte di calzatura e delle orme plantari, essenzialmente basata sulla perizia di Boemia e Rinaldi, consulenti dell’accusa durante il primo processo, comincia affermando che le impronte (orme plantari) rilevate dal luminol sono state fatte con il sangue, in virtù del ragionamento precedentemente esposto e che abbiamo già esaminato.

Nencini ammette senza problemi che l’impronta di scarpa Nike trovata nella stanza della Kercher appartiene a Guede e non a Sollecito, come si era inizialmente pensato.

Riassumendo, Boemia e Rinaldi rilevarono:

- reperti F e H (soggiorno) e 2 e 3 (corridoio): impronte di scarpa sinistra appartenenti a Guede; 
- reperti 5/a, 5/11, 5/C (stanza della Kercher): impronte di scarpa sinistra di Guede;
- fotografia 104 (cuscino trovato sotto la vittima): scarpa destra di Guede;
- fotografia 105 (cuscino): scarpa femminile sconosciuta taglia 36-38;
- reperto 1 (stanza della Knox): impronta di piede;
- reperto 2 (corridoio, orientate verso l’uscita): due impronte di piede (poi rettificato in una sola a pagina 261);
- reperto 6 (corridoio, orientata verso l’uscita): impronta di scarpa non utile per raffronti;
- reperto 7 (proprio fuori dalla stanza della Kercher, orientata verso la stanza): impronta di piede.

A quanto sopra bisogna ovviamente aggiungere la ben nota impronta sul tappetino del bagno piccolo.

L’analisi di Nencini inizia proprio da quest’ultima e dopo una lunghissima esposizione delle conclusioni di Boemia e Rinaldi e delle obiezioni del Prof. Vinci, si arriva alla non sorprendente conclusione che essa appartenga a Sollecito (con la riserva, espressa dagli stessi Boemia e Rinaldi, che tale impronta può permettere un’attribuzione probabile ma non certa per l’assenza di fattori individualizzanti, quali le creste papillari).

Meglio ancora, Nencini arriva alla conclusione che l’impronta è di Sollecito e non di Guede, mentre nel secondo processo si era arrivati alla conclusione opposta e invece in primo grado a questa stessa conclusione. Abbiamo dunque opinioni opposte, per quanto numericamente favorevoli all’identificazione di Sollecito, basate sull’esame visuale, sia pure con l’ausilio di una griglia, ma pur sempre un’ispezione visuale con misure prese su macchie bianche e nere.

Lo stesso vale per l’opinione pubblica: gli innocentisti dicono che non è di Sollecito e spesso dicono anche che invece è di Guede, mentre i colpevolisti dicono l’opposto.

Onestamente sembra un po’ un test di Rohrshach.

Ma c’è anche un’affermazione alquanto preoccupante di Nencini: “In conclusione, dovendosi necessariamente escludere, per le dimensioni, che l’impronta impressa sul tappetino azzurro sia riferibile ad Amanda Marie Knox, ed essendo incompatibile con Raffaele Sollecito e Rudi Hermann Guede, secondo la prospettazione della consulenza del Prof. Vinci si dovrebbe attribuire l’impronta ad una quarta persona, rimasta ignota ed evidentemente correo di Rudi Hermann Guede, circostanza questa non coerente ed eccentrica rispetto ai dati processuali complessivamente raccolti.” (pagina 259)

Beh, certo, se qualsiasi cosa che punta ad altri che non siano Knox e Solelcito è per definizione “non coerente ed eccentrica” rispetto al resto dei dati processuali, allora è matematicamente sicuro che non si troveranno mai prove che puntino ad altri.

Ma se fa troppa paura ammettere che c’erano “altri” che non erano gli imputati, si abbia almeno il coraggio di ammettere che l’impronta sul tappetino non permette di identificare nessuno con ragionevole sicurezza e che perciò deve essere esclusa dagli elementi indiziari.

Circa l’impronta di scarpa della fotografia 105, Nencini alla fine concede che “non si può escludere” che sia stata prodotta dalla scarpa di Guede su una superficie curva e morbida (il cuscino) invece che da una scarpa di taglia compatibile con il piede della Knox.

Le impronte evidenziate dal luminol

Boemia e Rinaldi attribuiscono i reperti 1 e 7 alla Knox e il reperto 2 a Sollecito. Il reperto 6 è giudicato non utile per raffronti per mancanza di riferimenti metrici (evidentemente non è stato misurato).

Nencini si occupa quasi esclusivamente del reperto 2 e ancora una volta dice qualcosa che lascia non poco perplessi: “anche in questo caso la percezione delle immagini evidenzia una assoluta somiglianza morfologica delle due impronte riportate alla medesima grandezza, per cui questo Giudice non può concordare con i rilievi di parte, anche in considerazione della notevole difformità delle tracce rilasciate dall’appoggio del piede su una superficie rigida ed in condizioni statiche, rispetto all’appoggio del piede in condizioni dinamiche (pagina 263).

Dato che tutte le impronte di riferimento usate per i raffronti in questo procedimento giudiziario sono state ottenute con “appoggio del piede su una superficie rigida ed in condizioni statiche”, viene spontaneo chiedersi se per caso tutte queste estenuanti analisi non siano perfettamente inutili.

Troviamo anche un breve riferimento al reperto 7, solo per dire che esso fu attribuito da Boemia e Rinaldi alla Knox “senza sostanziale contestazione” (pagina 263).

Forse Nencini non ha una conoscenza perfetta degli atti: “All’udienza del 6 luglio 2007 il Pof. Torre, consulente di parte, ha evidenziato che, sotto l’aspetto morfologico, il piede destro della Knox ha il secondo dito più lungo dell’alluce, al contrario delle orme evidenziate dal luminol. A prescindere, anche a questa Corte, nella comparazione delle immagini della stessa consulenza Rinaldi - Boemia, appare chiaro che la posizione di tutte le dita risulta diversa.”  (Hellmann pagina 110).

Nelle note conclusive del capitolo Nencini ribadisce che l’omicidio fu commesso da più assalitori, tra cui una donna, e che essi “si trattennero a lungo, dopo il delitto, nella abitazione, con il fine evidente di cancellare le tracce della propria presenza. Operazione questa che soltanto in parte fu possibile” (pagina 263).

E in verità una ben strana operazione di pulizia: ore e ore passate per cercare di pulire tutto, tranne la stanza dove l’omicidio aveva avuto luogo (pagina 85), che però era anche il luogo dove i rei dovevano aspettarsi di aver lasciato più tracce. 
Ma allora perché cercare di pulire il resto?


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