Ingiustizia a Perugia
Knox e Sollecito: analisi di una condanna (pagina 2)
un dettagliato sito web sull'ingiusta condanna di Amanda Knox e Raffaele Sollecito


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Knox e Sollecito: analisi di una condann, pagina 2 (pagina 1)

8 - Il tentativo di inquinamento della prova in grado si appello. Le dichiarazioni di Aviello e Alessi

Nulla d’importante in questo capitolo: Aviello ed Alessi sono totalmente inattendibili ma non c’è prova (tranne forse qualche allusione) che stessero mentendo in accordo con la difesa.


9 - Le dichiarazioni rese da Rudi Hermann Guede

Nencini considera di “indubbio rilievo processuale” (pagina 298) le dichiarazioni fatte da Guede davanti alla Corte d’Appello di Perugia e afferma che in quel contesto egli ha collocato Knox e Solelcito sulla scena del crimine.

Sì, lo ha fatto, ma come?

“DIFESA AVV. DALLA VEDOVA - E quindi, signor Guede, quando lei testualmente scrive 
che è stato "un orribile assassinio di una splendida meravigliosa ragazza quale era Meredith 
da parte di Raffaele Sollecito e Amanda Knox" che cosa vuole dire esattamente? Lei lo aveva 
mai detto questo? 
TESTE - Allora io questa, esplicitamente in questa maniera non l'ho mai detto però l'ho 
sempre pensato. 
DIFESA AVV. DALLA VEDOVA - Allora perché l'ha scritto? 
TEST - L 'ho scritto perché era un pensiero che è sempre stato dentro di me. 
DIFESA AVV. DALLA VEDOVA - Ma quindi non è vero. 
TESTE - No è verissimo. 
DIFESA AVV. DALLA VEDOVA - E cioè può elaborare meglio? Che vuol dire? 
TESTE - E' verissimo. 
DIFESA AVV. DALLA VEDOVA - Lei conferma questa circostanza? Da parte? 
TESTE - Allora, io con i.. allora, come le ho detto prima, questo è un pensiero che è stato 
sempre nella mia testa (...)” (pagina 296) 

Dunque nel giugno del 2011, più di tre anni e mezzo dopo l’omicidio, Guede ha il pensiero che Knox e Sollecito hanno ucciso Meredith Kercher.

Qualcuno ha un sogno e qualcuno ha un pensiero.

Nencini cita poi molte dichiarazioni precedenti di Guede e riassume le sue conclusioni dicendo che Guede ha sempre sostenuto di essersi trovato sulla scena del crimine al momento in cui questo ebbe luogo, che i suoi autori erano un uomo e una donna (forse era solo un caso che proprio un uomo ed una donna fossero stati appena arrestati) e che infine egli identificò la Knox come quella donna (ma non Sollecito come l’uomo) alla fine di Marzo 2008.

Visto che le dichiarazioni di Guede torneranno nel successivo capitolo, che si occuperà del fondamentale aspetto delle valutazioni conclusive, devo dire che anche io ho un pensiero ed è ora di esplicitarlo.

Nel corso degli anni la discussione sulle varie dichiarazioni fatte da Rudi Guede si è sempre concentrata su quanto tardivamente egli decise di fare il nome dei suoi asseriti complici e su come sia passato dal dire “Amanda non c’entra” nella sua conversazione via Skype con l’amico Giacomo Beneddetti a identificarla (quasi cinque mesi dopo) nella persona che egli dice di aver visto fuori dal villino la sera dell’omicidio. E poi c’è la dichiarazione del giugno 2011 prima citata.

Ma c’è qualcos’altro che tali discussioni hanno pressoché sempre trascurato.

Guede ha sempre detto, e sempre ribadito, di essere stato fatto entrare in quell’appartamento da Meredith Kercher, non dalla Knox o da Sollecito.

Ora, se ci si rifà alle prime dichiarazioni rilasciata da Guede dopo il suo arresto, tanto alle autorità tedesche quanto a quelle italiane, bisogna considerare che quando vennero fatte tutti i presunti autori del crimine erano sotto custodia e quando già gli inquirenti avevano reso pubbliche quali fossero le principali prove contro di loro.

Il famigerato coltello era diventato l’arma dell’omicidio sui mezzi d’informazione pochi giorni prima dell’arresto di Guede e Sollecito era apparentemente inchiodato dall’impronta della sua scarpa sulla scena del crimine (poi attribuita a Guede, ma questo non ha importanza ora).

Perciò quando Guede fece le sue prime dichiarazioni egli sapeva che la polizia apparentemente aveva prove contro tutti loro.

Ora, se le cose sono realmente andate come l’accusa e ben due corti ritengono che siano andate, perché Guede non ammise semplicemente che era stato fatto entrare dalla Knox e/o da Sollecito?

Non lo tratteneva certo il desiderio di “proteggerli” in qualche modo per timore di una ritorsione da parte loro: dopo tutto la sua principale paura, come evidenziato dalle sentenze che lo riguardano direttamente, fino alla Cassazione, era “ho avuto paura che avrebbero dato la colpa soltanto a me”, perciò, una volta ammessa la sua presenza al villino al momento dell’omicidio, non nominare esplicitamente gli altri non era certamente il modo giusto di “condividere” la responsabilità.

Invero il non nominarli ed il parlare solo di sconosciuti e di ombre non identificate sarebbe dovuto apparirgli come un buon modo per peggiorare la sua situazione, perché di fatto NON gli permetteva di condividere la responsabilità con dei soggetti identificabili.

Perché, se le cose sono andate veramente come l’accusa e le due sentenze di condanna sostengono esse siano andate, Rudi Guede non ha semplicemente raccontato quello che è successo, ovvero di aver incontrato Knox e Sollecito e di essere andato con loro al villino, o alternativamente di essere stato fatto da loro entrare in seguito?

Avrebbe poi potuto raccontare il resto della sua solita storia sull’approccio consensuale con Meredith, sulla necessità di andare al bagno, sull’aver sentito del trambusto mentre stava seduto sul water, sull’essere corso nella stanza di Meredith solo per trovarla oramai morente, etc.

Non avrebbe con ciò ammesso nulla da parte sua che non avesse già detto, avrebbe continuato a presentarsi come innocente e avrebbe anche potuto continuare a dire di non aver direttamente visto Knox e Sollecito uccidere la Kercher, ma sicuramente avrebbe raccontato una storia che collocava tutti i sospettati sulla scena del delitto, una storia che, viste le prove che gli inquirenti stavano sbandierando ai quattro venti, lo avrebbe reso solo più credibile.

Ma lui non l’ha mai detto e non ha mai cambiato quella parte della sua storia.

Forse perché le cose non sono andate a quella maniera?

Come annotazione finale da parte mia, vorrei far rilevare che a pagina 305 si riporta che Guede ha dichiarato che “escludeva invece di aver visto in Piazza Grimana autobus in partenza per le discoteche o barboni che stazionavano su qualche panchina” la sera dell’omicidio.


10 - Valutazioni conclusive

Nencini inizia questo cruciale capitolo con l’abituale premessa (richiesta dal Codice di Procedura Penale) che il verdetto è stato raggiunto al di là di ogni ragionevole dubbio e che nessuna spiegazione alternativa dei fatti è possibile.

Poi inizia la sua ricostruzione degli eventi, e questa volta è infine costretto a fornire una sequenza temporale.

E qui iniziano i problemi per lui.

Meredith Kercher arriva al villino alle 21 del primo novembre e Guede non è già all’interno per esservi entrato attraverso la finestra della camera della Romanelli. A quell’ora Knox e a casa di Sollecito in sua compagnia, presumibilmente a guardare il film “Amelie”. La coppia di giovani ha saputo solo dopo le 20 che entrambi avrebbero avuto la serata libera da altri impegni (con Lumumba e la Popovic) e tutta per loro.

L’ultimo elemento certo che prova la loro presenza a casa di Sollecito è un’interazione umana sul computer di Raffaele alle 21.20 circa (in realtà le 21.26), poi non c’è più prova della loro presenza colà fino ad un’altra interazione umana sul suddetto computer alle 5.30 del mattino del 2 novembre.

“Il teste Curatolo li collocava in Piazza Grimana, già dalle ore 21.30\22.00 della sera, ove il teste riferiva di averli attenzionati più volte fino attorno alle 23.00\23.30 di quella stessa sera; circostanza questa che la Corte ha ritenuto attendibile per le ragioni già espresse.” (pagina 311)
Dunque alle 21.30/22 del 1 novembre gli imputati si trovavano vicino al villino dove la vittima era già rientrata alle 21.

Sappiamo con certezza che Guede era dentro il villino quella sera perché ce lo dicono le prove e su questo sicuramente concordo con la sentenza. Concordo però meno sul fatto che “sappiamo con certezza che Rudi Hermann Guede poté trattenersi all’interno della villetta con assoluta tranquillità per un lasso di tempo considerevole, visto che lasciò le sue “tracce” nel bagno grande dell’abitazione” (pagina 311-312).

Dipende tutto da cosa uno intende con “lasso di tempo considerevole”, visto che una “seduta sul cesso” di solito non richiede più di una decina di minuti, un intervallo compatibile con la teoria del singolo assalitore, mentre qui Nencini implica (e poi lo affermerà esplicitamente) che Guede è rimasto nella casa per ore.

Il fatto che Sollecito non conoscesse Guede non ha importanza, dato che la Knox, che aveva incontrato Guede “in più di un’occasione” e che era la ragazza di Sollecito (da una settimana), fu il collegamento tra i due.
Un simile debole collegamento potrebbe portare magari ad una bevuta assieme, ad un omicidio in complicità sembra assai meno probabile.

Nencini ammette che Guede sarebbe potuto entrare nella casa con Knox e Sollecito, o che alternativamente la Kercher potrebbe avergli aperto la porta (con ciò riconoscendo che non si tratterebbe di un evento in assoluto impossibile), ma ritiene che non sia molto importante stabilire come esattamente Guede entrò nella casa (ovviamente ribadisce che non vi entrò passando dalla finestra della Romanelli).

“Ciò che conta è che, ad una certa ora, ragionevolmente tra le 21.30 e le 22.00 della sera del 1 novembre 2007, entrambi gli imputati e Rudi Hermann Guede erano sicuramente presenti all’interno della villetta ove si trovava Meredith Kercher, all’interno della sua camera” (pagina 313).

Più avanti si afferma anche che “all’interno della villetta, ad un’ora successiva alle 22.00 della sera, poteva essersi creata una situazione nella quale Amanda Marie Knox e Raffaele Sollecito si erano raccolti in intimità, facendo anche uso di stupefacente, Meredith Kercher era nella sua camera e Rudi Hermann Guede utilizzava dell’abitazione a proprio piacimento” (pagina 318).

“Il Procuratore Generale [Crini] ha ipotizzato, nella sua requisitoria, trattando specificamente del movente dell’omicidio, che lo stesso non possa identificarsi in una aggressione di carattere sessuale, ma che affondi le sue radici in una situazione di conflittualità fra le ragazze, conflittualità che sarebbe improvvisamente esplosa la sera del 1 novembre 2007; e specificamente nel fatto che Meredith Kercher avrebbe addebitato ad Amanda Marie Knox di aver fatto entrare nella abitazione Rudi Hermann Guede, il quale avrebbe effettuato un uso ‘inurbano’ del bagno dell’abitazione.” (la famosa “teoria dello stronzo,” pagina 313).

Dopo aver esposto una teoria che probabilmente ha lasciato lui, e molti altri, perplessi, Nencini sente il bisogno di dire che in un contesto come quello di questo caso può non essere semplice trovare un movente, che si può “fornire un’indicazione” (pagina 314), ma che in ultima analisi non possiamo ricostruire il movente con certezza e che comunque un movente non ha molta importanza quando la colpevolezza dell’imputato può essere dedotta “in maniera univoca dagli elementi di fatto di carattere indiziario e probatorio che emergono dagli atti della causa” (pagina 314).

Se si sa con certezza chi ha fatto cosa e come, allora certamente il perché perde d’importanza, SE si ha certezza del chi e come.

Ad ogni modo Nencini prova a fornire un movente:

“Fra Amanda Marie Knox e Meredith Kercher non vi era un buon rapporto. Meredith Kercher, la quale conduceva una vita molto regolare fatta di studio, di frequentazione delle sue amiche connazionali, e, in ultimo, anche di un rapporto affettivo intrecciato con uno dei ragazzi che abitavano al piano seminterrato della villetta, non tollerava il modo con il quale Amanda Marie Knox interpretava la convivenza all’interno dello stesso appartamento. In particolare risulta dalle testimonianze che la ragazza inglese non tollerava il fatto che Amanda Marie Knox portasse all’interno dell’abitazione persone estranee, in special modo ragazzi; non tollerava che Amanda Marie Knox utilizzasse gli spazi comuni dell’appartamento senza provvedere alla pulizia, tanto che nell’ultimo periodo era stato necessario tra le ragazze stabilire una sorta di turnazione nell’effettuazione dei lavori domestici.” (pagina 314)

Anche prendendo alla lettera tali testimonianze e dando alle parole riportate da terzi di Meredith Kercher un tono ed un significato che è dubbio avessero originariamente, tutto quello che se ne può dedurre è che la Kercher ce l’aveva con la Knox e non il contrario.

Non c’è una sola testimonianza che affermi che la Kercher avesse raccontato di male parole o di atti ostili di qualsiasi tipo provenienti dalla Knox, né alcuno ha testimoniato che la Knox si lamentasse della Kercher.

Perciò se dobbiamo veramente prendere in considerazione quelle testimonianze, avremmo un debole indizio di una qualche utilità in un caso in cui la Knox fosse la vittima e la Kercher l’imputata.

Per quanto riguarda le pulizie di casa, le due coinquiline più infastidite erano le due italiane, e particolarmente Laura Mezzetti, non certamente la Kercher. E tutto ciò è agli atti.

Per di più, se si guarda ai fatti e non alle parole, la Kercher era andata con la Knox ad assistere ad un concerto di musica classica il 25 ottobre, il concerto dove Knox e Sollecito si incontrarono.

Dato che certamente la Kercher scelse liberamente di andare al concerto con la Knox, la loro relazione non poteva andare tanto male, nemmeno dal punto di vista della Kercher.

Dopo il 25 ottobre e fino al giorno dell’omicidio, la Knox passò più tempo a casa di Sollecito e con Sollecito che al villino con la Kercher, perciò è difficile capire come la relazione potrebbe essersi deteriorata in quei giorni.

Nencini tuttavia ritiene di avere un importante sostegno alla sua tesi nelle dichiarazioni di Rudi Hermann Guede (nientemeno) e specificamente sul punto della scoperta da parte della Kercher dell’ammanco di denaro nella sua stanza e sul fatto che la Kercher ne abbia accusato la Knox.

“Infine le dichiarazioni rese da Rudi Hermann Guede nel corso degli interrogatori resi in seguito al suo arresto. Riferiva, il Guede, che Meredith Kercher, la sera in cui fu assassinata, aveva scoperto un ammanco di denaro dalla sua camera, e immediatamente aveva attribuito tale sottrazione ad Amanda Marie Knox. Prescindendo dalla circostanza della fondatezza o meno dell’addebito che la vittima muoveva alla ragazza americana, ciò che interessa osservare in questa circostanza riferita dal Guede, è il fatto che, di fronte a un evento di obiettiva gravità, quale la sottrazione di denaro all’interno di un appartamento abitato da più ragazze, ove si vive una situazione di inevitabile promiscuità, la ragazza inglese attribuiva tale condotta immediatamente ad Amanda Marie Knox; circostanza questa compatibile soltanto con una valutazione negativa della personalità dell’imputata da parte della vittima. (pagina 315)

Inoltre Nencini si spinge fino a dire che “il fatto che insistentemente il Guede riferisca la circostanza in tutti gli interrogatori, unita al rilievo che vi è prova in causa che effettivamente una cifra di 300 euro [per la cronaca: Guede non ha mai citato la somma esatta] era stata accantonata dalla vittima per il pagamento del canone di locazione, rende obiettivamente credibile il racconto dell’ivoriano (pagina 317).

Al di là del fatto che l’unico testimone di tale presunto evento è Guede, che non è esattamente testimone neutro e disinteressato, né notoriamente affidabile, anche a prenderlo alla lettera (e bisogna fare un certo sforzo), avremmo solo un’ulteriore indizio che forse la Kercher ce l’aveva con la Knox, non del contrario, né che la Knox ricambiasse.

La motivazione afferma poi che il tema del denaro era richiamato anche nella sentenza che condannò Guede: sì lo fu, ma in che modo?

“Quanto al litigio per l’ammanco del denaro, rappresentato dall’imputato fin dal primo momento, a sostegno di detta tesi del furto seguito dall’omicidio, oltre a quanto già detto in merito alla inverosimiglianza, basta aggiungere che l’uccisione di Meredith appare un fatto del tutto sproporzionato rispetto alla scoperta dell’ammanco e alla constatazione del furto, sia perché Amanda ben poteva dirottare i sospetti sulle altre coinquiline, sia perché Meredith, pur criticandone talvolta i comportamenti disinvolti, era amica di Amanda, uscivano spesso insieme, avevano anche amici in comune e non vi era alcun motivo perché, a fronte di una accusa, anzi di un sospetto, avesse dovuto, insieme al suo complice, sopprimere l’amica e compiere lo scempio sul suo corpo, ben visibile nelle foto a colori prodotte dal procuratore generale; scempio che appare più ragionevole collegare ad un raptus e ad impulsi sessuali non più governabili.” (Brosini-Belardi pagina 55 versione OCR)

Si arriva poi a quello che per la sentenza potrebbe essere un serio incidente procedurale, forse anche una ragione per cassarla per motivi di illegittimità.

Nencini afferma che le testimonianze provano che la sera del 1 novembre 2007 Meredith Kercher aveva nella sua stanza la somma di 300 euro, denaro destinato a pagare l’affitto e che non fu poi ritrovato, così come non furono ritrovate le sue carte di credito, dopo il delitto.

Come peraltro si ammette apertamente in sentenza, Knox e Sollecito furono assolti per il furto del denaro e delle carte di credito già in primo grado. Tale giudizio diventò definitivo, e quindi verità giudiziaria, dato che nessuno fece appello avverso tale parte della sentenza entro 45 giorni dalla pubblicazione della motivazione Massei.

Ma Massei non si limitò a stabilire che Knox e Sollecito non avevano rubato il denaro e le carte di credito (in tal caso li avrebbe assolti “per non aver commesso il fatto”): egli li assolse con la formula “perché il fatto non sussiste” (Massei pagina 417).

Tale formula implica che per la giustizia italiana, con l’autorità derivante da sentenza passata in giudicato, e per di più non in altro processo, ma in quello stesso riguardante Knox e Sollecito, tale furto non è mai avvenuto.

A ulteriore sostegno si potrebbe citare ancora la sentenza su Rudi Guede: “a parte i due telefonini (...) non vi è alcuna prova che dalla stanza di Meredith fosse stato asportato denaro o altro, non potendosi considerare tale la dichiarazione dell'imputato, che avrebbe appreso del furto de relato, circostanza, ovviamente, non più verificabile, tenuto anche conto del fatto che la KERCHER aveva, sì, avuto modo di lamentarsi del comportamento di Amanda con le amiche inglesi, a causa della sua sciatteria (la rimproverava, ad esempio, di non pulire il bagno), del suo comportamento discinto, ma mai la aveva accusata di averle sottratto qualcosa, tenuto anche conto del fatto che se è vero quanto riferito dalle coinquiline, che Meredith usava pagare l'affìtto in contanti, nessuna prova vi era che avesse già prelevato la somma necessaria” (Borsini-Belardi pagina 39).

Perciò Meredith Kercher non avrebbe potuto adirarsi con la Knox per qualcosa che tanto per cominciare non era mai avvenuto e che ciò non sia mai avvenuto è stato definitivamente stabilito nel contesto dello stesso procedimento sul quale Nencini ha giudicato.

Questa è veramente materia per la Corte di Cassazione.

Tornando alla prospettazione di Nencini, il presunto ammanco di denaro e l’anche troppo vero “regalo” di Guede nel bagno potrebbero essere stati “un valido motivo per Meredith Kercher, la quale non aveva in simpatia l’imputata, per chiedere a quest’ultima spiegazioni in maniera molto pressante” (pagina 317).

“E’ quindi ragionevole ritenere che ad un certo punto all’interno della villetta si sia accesa una discussione, originata da precisi addebiti che la ragazza inglese riteneva di dover muovere ai presenti. Così come è ragionevole ritenere che la reazione degli imputati e di Rudi Hermann Guede non sia stata accomodante.” (pagina 318)

“Ragionevole” su che base?

Come abbiamo visto non vi è prova agli atti che la Knox avesse alcun risentimento o difficile rapporto con la Kercher (se prendiamo seriamente, o piuttosto estrapoliamo alcune testimonianze, era in realtà la Kercher quella che poteva attaccare la Knox, non il contrario).

Anche se la Kercher l’avesse affrontata in malo modo, non c’è alcun elemento agli atti del processo che ci possa far immaginare che la Knox o Sollecito avrebbero avuto alcuna ragione per reagire con violenza, men che mai con quel livello di violenza.

Se è vero che non ci si può immaginare quale sarebbe stata la reazione di Guede qualore fosse stato attaccato verbalmente, è anche vero che la Knox conosceva la Kercher (molto) meglio di Guede, che non aveva rancori o risentimenti verso di essa (ripepto, non vi è alcuna prova contraria) e non avrebbe permesso a Guede di attaccarla (tantomeno si sarebbe unita a lui contro la Kercher). La presenza di Sollecito e la di lui relazione con la Knox avrebbero agito da ulteriore deterrente nei confronti di Guede.

In conclusione non sarebbe successo nulla, tranne forse che i tre se ne sarebbero andati dal villino, lasciandosi dietro Meredith Kercher a sbollire la rabbia.

Questo è “ragionevole”, non le speculazioni fatte in sentenza. Speculazioni quali alludere ad un presunto (e totalmente non provato, come si ammette in motivazione) uso di droghe al villino quella sera come possibile causa di reazioni violente.

Comunque, visto che oramai siamo nel regno delle pure speculazioni, seguiamo la ricostruzione dell’attacco a Meredith Kercher fatta da Nencini: Guede le blocca la mano sinistra e la penetra digitalmente. Sollecito causa le ferite minori con un coltellino che è solito portarsi dietro (e mai identificato o ritrovato) e tocca anche il gancetto del reggiseno per sollevarlo dalla schiena della Kercher e poter così infilare la lama del coltello al fine di tagliare il reggiseno. La Knox invece è quella che causa la ferita mortale al collo con il famigerato coltello sequestrato a casa di Sollecito.

Nencini ritiene necessario dilungarsi sul coltello e ciò torna utile pure a noi.

Prima di tutto prende alcuni abbagli: uno (il fatto che l’intero coltello e non la sola lama sia lungo 31 cm) è assimilabile ad un refuso, ma l’altro, ovvero che nelle “striature quasi impercettibili” sulla lama sia stato trovata una mistura dei DNA di Kercher e Sollecito, potrebbe denotare una conoscenza alquanto incompleta degli atti.

A dire il vero c’è pure un’altra cantonata: Nencini afferma che “entrambe le tracce attribuite ad Amanda Marie Knox venivano rinvenute sul manico del coltello nella parte terminale prossima alla lama” (pagina 321).

In realtà la traccia 36A si trovava sul manico, ma quella “nuova”, la 36I, quella esaminata nella perizia del RIS, si trovava sulla lama vicino al manico.

Ancora una volta sembra che non ci sia una completa familiarità con gli atti.

Tuttavia il resto dell’analisi fatta da Nencini a proposito del coltello quale arma del delitto è molto interessante e deve essere anche collegata a quanto detto in precedenza a proposito delle prove genetiche, particolarmente in merito alla traccia 36B.

Nencini ritiene che la lama di 18 cm non sia incompatibile con la ferita (quella mortale) lunga soli 8 cm, dato che non è automatico che il coltello dovesse essere inserito fino all’impugnatura. Specificamente Nencini dice “né, inoltre, può essere indicativa di questa modalità operativa [inserimento della lama per tutta la sua lunghezza, fino all’impugnatura] la ecchimosi presente lungo uno dei bordi della ferita in interesse, poiché attribuire tale ecchimosi all’urto del manico del coltello con la superficie epiteliale del collo è una affermazione priva di certezza” (pagina 322).

Leggete bene: “un’affermazione priva di certezza”, il che significa che è cosa della quale non possiamo essere certi, ma che tuttavia l’affermazione, lungi dall’essere infondata, contiene elementi di verità, solo che non possiamo essere certi che provi qualcosa in maniera incontrovertibile.

Perciò, come la traccia 36B secondo le parole di Nencini, tale affermazione può essere “non rassicurante” ma rappresentare lo stesso un elemento indiziario con il quale la Corte dovrebbe misurarsi deliberando a proposito del coltello. In particolare, essa è un elemento almeno altrettanto affidabile della traccia 36B ed è di segno opposto, tanto da annullare la 36B.

O almeno così dovrebbe essere seguendo un ragionamento corretto.

Nencini trova anche da obbiettare all’ipotesi, necessaria per giustificare la larghezza e l’aspetto maciullato della ferita, che un coltello più piccolo avrebbe causato una tale ferita tramite la reiterazione del colpo.

La sua obiezione si basa sulla “molto semplice” ragione che la violenta fuoriuscita di sangue causata da una ferita lunga 8 cm in quell’area avrebbe completamente nascosto il punto d’ingresso della lama, rendendo così impossibile reinserirla nello stesso tramite nella carne.

Tale tesi è però più semplicistica che semplice: non c’è motivo di estrarre totalmente la lama per poi reinserirla di nuovo fino in fondo. Con un piccolo coltello sarebbe molto facile estrarre solo parzialmente la lama con un veloce movimento del polso per poi rapidamente reinserirla con lo stesso movimento del polso ma in verso opposto. A dire il vero, per un singolo assalitore posizionato dietro la vittima questo sarebbe praticamente l’unica modalità di azione, dato che non potrebbe in ogni caso vedere il punto d’ingresso della ferita, anche senza perdite di sangue.

La motivazione si dimentica poi anche di solo accennare alla presenza di granuli di natura vegetale, probabilmente amido, sulla lama e, come si è già detto, “dimenticarsi” di un elemento a favore degli imputati è peggio che scartarlo con un ragionamento lacunoso, agli occhi della Corte di Cassazione.

Nencini conclude che il grosso coltello non è incompatibile con la ferita mortale e che perciò la traccia 36B è “pienamente compatibile sia con la natura dell’arma, sia con il suo utilizzo” (pagina 323).

Se egli avesse correttamente considerato la rilevanza delle ecchimosi sul bordo della ferita e l’assoluta fattibilità dei colpi reiterati lungo lo stesso tramite con un coltello più piccolo, avrebbe dovuto escludere il coltello sequestrato a casa di Sollecito quale arma del delitto, dato che la 36B è compensata dall’ecchimosi e che i rimanenti elementi sono assolutamente troppo deboli per giustificare la presenza di un secondo coltello, molto più grande, visto che le altre due ferite sono state chiaramente prodotte con un coltello più piccolo e che un coltello più piccolo ha lasciato una silhouette macchiata di sangue sul coprimaterasso della Kercher.

Per di più la motivazione, cercando di rinforzare la propria tesi attraverso una spiegazione per la presenza di quel coltello sulla scena del delitto, introduce almeno un altro problema per le sue “prove”, ed il particolare per la traccia 36B.

Tra l’altro, è degno di nota come tale traccia, che inizialmente era stata classificata come “non rassicurante” ma “non inammissibile”, ovvero come un elemento da considerarsi ma apparentemente non molto sopra la soglia d’esclusione, sia diventato, giunti a pagina 321, “un forte indizio della circostanza che quell’arma costituisca la seconda arma utilizzata nell’omicidio di Meredith Kercher” .

Suona un po’ come un gioco di prestigio.

Comunque, per giustificare la presenza del coltello al villino la sera dell’omicidio in un contesto che esclude la premeditazione, Nencini deve supporre (come già fece Massei) che esso era abitualmente trasportato dalla Knox nella sua “capace borsa” per difesa personale, o anche che, visto che il villino e casa di Sollecito erano piuttosto vicini e che la Knox andava regolarmente avanti e indietro tra i due, come se avesse una doppia abitazione (cosa che, come già detto, incidentalmente rende la doccia del 2 novembre mattina un evento assolutamente ordinario), un coltello in dotazione ad una delle due case potesse finire più o meno abitualmente nell’altra.

Nencini non approfondisce tutto questo andare avanti e indietro di coltelli (c’era ampia disponibilità di coltelli al villino e la Knox ne aveva pure un set intonso nella sua valigia), tuttavia, se lo si accetta come un dato di fatto, tutta la questione della possibile contaminazione, o, meglio ancora, della possibile origine della traccia 36B (assumendo che poi si tratti davvero del DNA della vittima), deve essere riesaminata da una prospettiva totalmente diversa.

Se la supposta arma del delitto si muoveva con una certa regolarità avanti e indietro, da e per Via della Pergola, allora la possibilità di un trasferimento secondario tra la Kercher ed il coltello per tramite della Knox, o persino di una deposizione primaria con la Kercher che tocca il coltello lasciato nella cucina del villino, entra drammaticamente nel novero delle probabilità concrete.
Se il DNA della Knox si trova sulla lama, come indicato dalla traccia 36I, e visto che la Knox non si è uccisa (né ferita) con quel coltello, ciò significa che essa ha deposto il suo DNA sulla lama nel corso del maneggio ordinario di tale coltello, e allora la Kercher potrebbe aver fatto lo stesso se era così normale per quel coltello trovarsi al numero 7 di Via della Pergola.

Quindi, il modo in cui Nencini giustifica la presenza di quel coltello al villino rende anche automaticamente la traccia 36B un non più tanto “forte indizio”, addirittura la riduce più o meno allo stesso livello probatorio della 36I.

Nencini rigetta poi l’obiezione che gli imputati si sarebbero subito liberati di quel coltello, se fosse stato l’arma del delitto, dopo l’omicidio, invece di riportarlo a casa di Sollecito, con la solita cara vecchia argomentazione che esso era stato inventariato dalla padrona di casa di Sollecito e che se non fosse stato ritrovato a casa sua, la sua assenza avrebbe indirizzato i sospetti della polizia verso Raffaele.

Ovviamente un tal ragionamento doveva essere ben presente alla mente di Raffaele Sollecito subito dopo aver partecipato ad un violento omicidio e mentre era in fuga. Certamente deve essersi ricordato dell’esistenza di tale inventario e deve aver sicuramente dato per scontato che gli inquirenti avrebbero chiesto alla sua padrona di casa se un tale inventario esisteva, così come certamente deve aver preferito correre il rischio di provare a pulirlo piuttosto che rischiare di affrontare sospetti che non avrebbero potuto trovare riscontro scientifico in un coltello che non si sarebbe più trovato.

Sì, deve proprio essere andata così.

Quindi Knox e Sollecito preferirono “lavare accuratamente il coltello, con un operazione di pulitura particolarmente meticolosa che soltanto per un caso fortuito (la presenza di striature non immediatamente percepibili alla vista) non eliminò ogni traccia di Meredith Kercher dalla lama del coltello” (pagina 324).

Una breve annotazione: se c’è stata una tale accurata pulizia, non si può pretendere seriamente che la traccia 36A (il DNA della Knox sul manico) sia collegabile all’omicidio.

Come ultimo atto Nencini rappresenta l’aggressione con i tre assalitori che le saltano addosso e la immobilizzano simultaneamente, una prima ferita fatta con un coltello più piccolo la fa urlare e questo urlo viene sentito dalla Capezzali e dalla Dramis (sarebbe in realtà la Monacchia, ma a questo punto non ha più importanza) e raccontato dalla Knox nel suo primo memoriale (del cui contesto pieno di dubbi non si fa menzione in sentenza). Infine la ferita mortale viene inferta al fine di impedire alla vittima di urlare ancora.

Meredith Kercher doveva morire perché i suoi aguzzini, ad un certo punto nel corso dell’aggressione, si resero conto che, se fosse sopravvissuta, li avrebbe denunciati.

Di conseguenza gli imputati sono colpevoli dei reati loro ascritti. Punto.

Punto?

Scusi un momento, signor giudice, si è dimenticato di un “piccolo dettaglio”.

Lei ha affermato che alle 22 gli imputati si trovavano al villino e a pagina 146 lei ha anche detto di “ritenere che gli imputati abbiano consumato l’omicidio poco prima della mezzanotte”, perciò nella sua ricostruzione e in base alle sue stesse parole, essi si trovavano al villino e lontani da Piazza Grimana dalle 22 fino a poco prima di mezzanotte.

Come si riconcilia questo con ciò che il suo credibile e anche “preciso” testimone Antonio “Toto” Curatolo (pace all’anima sua) ha testimoniato?

Curatolo testimoniò di aver visto gli imputati in Piazza Grimana diverse volte tra le 21.30/22 e le 23/23.30, o meglio ancora, fino a “prima di mezzanotte”, come disse letteralmente. In tale testimonianza egli specificò anche di averli visti quattro o cinque volte ad intervalli di tempo, tra una sigaretta e l’altra, tra uno sguardo e l’altro alla piazza.

Certo, signor giudice, lei ha detto che i tempi riferiti dal Curatolo devono essere presi con una certa “tolleranza”, ma nella sua ricostruzione non c’è proprio posto per i suoi quattro o cinque avvistamenti: non è possibile trasformare i suoi quattro o cinque avvistamenti nell’arco di quasi due ore nell’aver notato la loro presenza in Piazza Grimana in un qualche orario tra le 21.30 e le 22, perché Curatolo è stato molto “preciso” sul fatto di averli visti più volte in un lungo arco di tempo.

Magari non è preciso al minuto, magari neppure alla mezz’ora, ma pretendere di trasformare il suo racconto di un’osservazione della coppia durata l’intera serata in un veloce passaggio degli imputati mentre si stavano trasferendo al villino non è affatto credibile.

Perciò, o Curatolo dà loro un alibi, o egli è totalmente inaffidabile, ed in ambo i casi si genera qualcosa di più di un ragionevole dubbio.

14 - Il trattamento sanzionatorio

L’ultimo capitolo della motivazione si occupa dei dettagli tecnici della determinazione della pena.
Essenzialmente viene confermato quanto stabilito in primo grado, ma la Knox si becca sei mesi in più per l’aggravante di aver calunniato Lumumba al fine di proteggere se stessa ed i suoi complici dall’accusa di omicidio.

Inoltre essa non riceve il beneficio della “continuità” che ottenne in primo grado e quindi alla fine passa da 26 a 28 anni e mezzo di carcere.
La ragione per il diniego della continuità occupa molte pagine ed è altamente tecnica, di conseguenza eviterò di discuterla.

A dire il vero, penso che questo potrebbe essere l’unico capitolo tecnicamente corretto della sentenza.

Conclusioni dell’autore

Ritengo che questa sia una motivazione altamente imperfetta, piena di contraddizioni logiche, di abbagli, vicoli ciechi e anche errori fattuali. Non sono mai stato un ammiratore della motivazione di Massei, anzi l’ho criticata severamente in altri miei scritti, tuttavia, se confrontata alla presente motivazione, essa assurge quasi al rango di mezzo capolavoro.

Almeno Massei non tentava di nascondere le inconsistenze dietro la mancanza di una sequenza degli eventi, discuteva quasi tutte le argomentazioni della difesa (il che non significa che avesse ragione su di esse) e, anche se pure lui aveva la sua parte di inconguenze ed assunzioni arbitrarie, tuttavia mostrava maggior coerenza interna.

Io credo che la Corte di Cassazione debba annullare questa sentenza, e non lo dico solo perché credo nell’innocenza di Knox e Sollecito e così via, ma anche perché penso che l’ultimo giudizio di merito su di una tale lunga e controversa vicenda non possa essere lasciato ad una motivazione così poco soddisfacente.

Non posso credere che delle persone obbiettive, anche se magari orientate in senso colpevolista, possano essere realmente soddisfatte dalle risposte che essa fornisce, dal modo in cui le fornisce e dai buchi che lascia.


Appendici

Ciò che segue è una raccolta di considerazioni generali di principio e non riguarda specificamente solo questo caso, anche se esse sono valide per questo caso come per qualsiasi altro.


Appendice I - Vera giustizia per chi, in ogni caso?

Quest’anno segna il centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale e tale anniversario vedrà un turbinio di attività da parte degli storici che pubblicheranno nuovi libri sul tema e da parte delle case editrici che ristamperanno quelli vecchi. L’argomento delle cause della guerra e della responsabilità per averla scatenata è ancora oggi molto dibattuto tra gli storici, di professione e non, con diverse scuole di pensiero che si confrontano.

Questo è un argomento che è stato discusso per un secolo, molti milioni di pagine sono state scritte in proposito, basandosi su migliaia di documenti ufficiali e tuttavia esso è ancora una questione aperta.

Invero il lavoro dello storico funziona a questa maniera: scrivere di fatti storici è come cercare di ricostruire il passato da molteplici punti di vista, ma sapendo che nella maggior parte, se non in tutti i casi una conclusione definitiva non verrà mai raggiunta, poiché il lavoro dello storico è quello di rivalutare continuamente il passato.

La giustizia penale cerca di fare qualcosa di simile al lavoro dello storico: ricostruire un evento del passato, di solito con meno informazioni e molto meno senno di poi di quanto gli storici abbiano a disposizione.

Ma diversamente dagli storici, i giudici devono giungere a conclusioni apparentemente definitive ed emettere un verdetto e non in secoli ma in anni o anche meno.

Secondo la definizione comunemente accettata nella giurisprudenza italiana, un processo indiziario è un procedimento in cui il giudice cerca di ricostruire un fatto ignoto (per esempio chi ha ucciso la vittima e come) attraverso elementi noti (gli indizi).

Un processo indiziario, quale quello che vede coinvolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito, è chiaramente un ottimo esempio di giudici che cercano di fare il lavoro degli storici, ma con molto meno tempo a loro disposizione e con la pretesa di trovare, diversamente dagli storici, una verità definitiva.

Per di più, mentre gli storici possono al massimo emettere una condanna morale, i giudici possono condannare delle persone a rimanere in prigione per anni, decenni o anche a vita. In alcuni paesi possono anche condannarli a morte.

Io sono sempre stato affascinato dalla storia, potrei anche vedermi un po’ come uno storico dilettante (ma proprio molto dilettante), mentre il mio interesse per la giustizia penale e la giurisprudenza è nato in tempi recenti quando ho preso coscienza della piaga rappresentata dagli errori giudiziari.

Ma quando ho iniziato a guardare alla giustizia penale portando con me questo interesse di lungo corso per la storia, la cosa che mi ha stupito di più è come i giudici possano pretendere di raggiungere conclusioni definitive su eventi di cui gli storici discuterebbero per decenni o anche secoli senza raggiungerne una. 

Certo comprendo che la società e gli individui hanno bisogno, da un punto di vista pratico ancor più che di principio, di avere verdetti emessi in tempi ragionevoli e di avere condanne o assoluzioni piuttosto che posizioni indefinite.

Tuttavia questa può solo essere, nella migliore delle ipotesi, una giustizia per approssimazione, cioé una giustizia che talvolta fa la cosa giusta e qualche volta no, e che, per di più, sa che può commettere errori e lo accetta.

Non a caso in Italia è oramai piuttosto usuale, quando si parla di eventi sui quali la magistratura ha emesso un giudizio, fare una distinzione tra una verità giudiziaria (cioé la verità così come ricostruita nel procedimento giudiziario) e una verità storica (ovvero ciò che è realmente successo).

Implicita in questa distinzione è l’ammissione che queste due verità possono differire e che in verità talvolta differiscono.

Il caso Kercher è stato il mio primo contatto “in dettaglio” con i procedimenti penali e la verità giudiziaria: prima di occuparmene avevo una visione piuttosto ingenua ed allo stesso tempo ottimistica della giustizia dei tribunali. Non sapendo come funzionasse pensavo che funzionasse abbastanza bene.

A forza di leggere motivazioni e atti processuali vari, ho potuto raggiungere una conoscenza dall’interno dei meccanismi del sistema giudiziario e quello che ho visto non mi ha esaltato. Ho letto altre motivazioni e atti di altri processi contemporanei e le cose non sono affatto migliorate.

Alcuni anni fa non avrei mai creduto possibile che i turni delle pulizie o presunte multe da cinque euro potessero essere seriamente presentate in un tribunale italiano come ragioni ultime di un omicidio, né avrei mai creduto che tanga e capriole avrebbero potuto ottenere la benché minima considerazione da parte di un giudice italiano, o che testimoni che dicono di aver sentito dire da qualcuno che a sua volta aveva sentito dire qualcosa potessero essere ammessi in aula (questo è successo in un altro processo, ma sempre in Italia).

In quell’età dell’innocenza (e della cecità) avrei ritenuto impossibile che la gente potesse farsi convincere da una serie di “probabilmente” o che ciò che teoricamente dovrebbe essere stabilito “al di là di ogni ragionevole dubbio” (come stabilito dall’articolo 533 del Codice di Procedura Penale) è in realtà un groviglio di supposizioni e male valutazioni delle prove (ognuna di esse sempre la più sfavorevole per l’imputato), legate assieme dalla sempre vaga e tuttavia maligna signora e padrona della giustizia, ovvero la prova indiziaria.

Anche se forse un utile strumento dal punto di vista teorico, la prova indiziaria ha oggi la consistenza di un sogno in qualche processo (Scazzi/Misseri) o quella di testimoni che confondono giorni e notti in altri (indovinate a quale mi riferisco), quando non è semplicemente fatta di gossip, moralismi fuori posto e arbitrarie valutazioni dell’altrui comportamento.
Tutte quante queste cose, ovviamente, sempre considerate nel modo più dannoso per l’imputato: un’evidente negazione dell’antico principio del favor rei. E’ inutile rivendicare l’eredità del diritto romano quando poi si dimenticano i suoi fondamentali principi.

Io sono stato educato ad avere un’estrema coerenza di pensiero sin dal tempo della scuola (probabilmente è anche una questione di carattere), perciò quando vedo un problema e voglio risolverlo, sono disposto ad andare fino alle estreme conseguenze a questo scopo.

Poiché per me il problema è rappresentato dagli errori giudiziari e sono un fermo sostenitore del principio “meglio dieci colpevoli in libertà che un solo innocente in galera”, se fosse per me, io abolirei semplicemente la prova indiziaria dal processo penale, di modo che la giustizia non possa più essere fatta per approssimazione.

Ora, dato che mi rendo conto che una posizione così estrema non troverà molti sostenitori, nemmeno tra coloro che sono ben consci del problema rappresentato dagli errori giudiziari, la mia posizione realistica di ripiego è che devono essere imposti più controlli e limiti alla valutazione della prova indiziaria nei processi.

Più specificamente, i singoli indizi dovrebbero superare individualmente un severo test riguardante la loro consistenza e mancanza di ambiguità prima di venire ammessi alla fase successiva di valutazione complessiva e solo quegli indizi che superassero questa prova dovrebbero essere ammessi alla valutazione in collegamento con gli altri al fine di provare un impianto accusatorio. E di nuovo, anche quando gli elementi “sopravvissuti” dovessero essere messi insieme per formare una ricostruzione degli eventi, questa ricostruzione dovrebbe superare un altro test che la dimostri essere l’unica possibile ricostruzione, qualora essa comporti la colpevolezza dell’imputato.

Questo “test di ammissione” sarebbe finalizzato a prevenire proprio quel tipo di valutazione “osmotica” delle prove che abbiamo visto in questo specifico procedimento (per di più caldeggiata dalla Cassazione), ovvero un’ammucchiata di elementi dubbi, la sussistenza dei quali non è neppure certa, e tutti quanti suscettibili di interpretazioni non univoche.

Mentre la Corte di Cassazione ha prontamente citato nella sua motivazione l’antico detto latino “quae singula non probant, simul unita probant” (“ciò che le cose prese singolarmente non provano, è provato dalle stesse cose se prese assieme”) per giustificare il suo principio “osmotico”, il rischio, come dimostrato da molti processi, non solo da questo, che questo concetto, in se stesso corretto, possa diventare in pratica una copertura per sentenze basate sulla semplice somma di una quantità di elementi senza alcuna considerazione per il loro significato, o persino la loro reale esistenza, fa sì che un “test di ammissione” costituisca un approccio preferibile se vogliamo che la giustizia diventi Giustizia e che la verità giudiziaria coincida con quella storica.

Il corollario di quanto detto sopra è che qualora la colpevolezza non possa essere provata ad un livello molto prossimo alla certezza, è meglio ammettere che non si può giungere alla verità e assolvere, anche con formula dubitativa, ove opportuno, piuttosto che condannare sulla base del “ci sono così tanti indizi che non possono essere tutti sbaglaiti”.

Questi concetti sono già presenti, almeno in parte, nella più parte dei codici penali e sicuramente in quello italiano: il problema è che essi, il più delle volte, rimangono lettera morta.

Dovremmo tutti desiderare che nelle nostre società ogni misura sia presa al fine di far sì che solo i veri colpevoli siano condannati, ma spesso le paure individuali e collettive e slogan del tipo “certezza della pena” prevalgono su ciò che in ultima analisi dovrebbe essere (e concettualmente è) la vera Giustizia.

Un altro sfortunato dato di fatto è che polizia, pubblica accusa e giudici di solito hanno a che fare soprattutto con colpevoli (il che in sé va benissimo: sarebbe molto peggio se avessero soprattutto a che fare con innocenti) e perciò, che avvenga per un intuitivo calcolo delle probabilità o per abitudine, tendono a pensare che quelli che hanno davanti siano sempre, più probabilmente che non, colpevoli.

Certamente questa è la conseguenza di limiti molto umani, ma sfortunatamente costituisce anche un completo capovolgimento di tutti i fondamentali principi di legge, ovverosia della presunzione d’innocenza, della prova della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio e dell’onere della prova a carico dell’accusa.

La conclusione è che coloro che accettano di avere una giustizia che funziona con tutte le limitazioni di cui sopra non stanno cercando una Vera Giustizia, ma solo un suo simulacro burocratico.


Appendice II - Guelfi e Ghibellini

Nel corso di tutta la sua storia l’Italia è stata spesso un campo di battaglia, tanto reale che metaforico, per opposte fazione: Fascisti ed Antifascisti o Comunisti ed Anticomunisti in tempi più recenti, sostenitori od oppositori di Francia, Spagna od Austria nei secoli precedenti e prima ancora, andando indietro fino al Medio Evo, tra coloro che ancora oggi simboleggiano nel linguaggio comune uno scontro tra fazioni, ovvero Guelfi e Ghibellini.

Anche Dante partecipò alle loro lotte e di esse vi sono ampie tracce nei suoi scritti, compresa ovviamente la sua opera più celebre, ovvero la Divina Commedia.

Tornando al nostro tempo ed al nostro caso, tempo fa leggevo la motivazione riguardante il processo d’appello di un altro caso molto noto (Parolisi/Rea) e vi ho trovato una citazione della sentenza della Cassazione riguardante Knox e Sollecito, con particolare riferimento al principio della valutazione “osmotica” delle prove (per quanto qui si usi l’aggettivo “sinergica”) e subito dopo una frase che si spiega da sola: “di tali principi si farà applicazione in questa sede” (Corte d’Assise d’Appello di L’Aquila, 30/09/2013 Catelli-Servino pagina 66).

Nella pagina immediatamente precedente (pagina 65) gli autori di questa motivazione hanno anche scritto: “Per quanto attiene poi l’asserita violazione dell’articolo 533 c.p.p., per la ritenuta penale responsabilità dell’imputato non ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’, la giurisprudenza del Supremo Collegio [Corte di Cassazione] ha costantemente affermato che, con tale locuzione, recepita nel testo novellato dell’art 533 c.p.p., non è stato dettato un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito il principio, immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario, secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale della responsabilità dell’imputato (...).”

Vengono poi citate tre sentenze della Cassazione, due datate 2006 e una 2008.

Facciamo ora un confronto con quanto scritto da Hellmann e Zanetti alle pagine 138 e 139 della loro motivazione:

“Ed anche nella requisitoria del P.M. ricorre spesso il termine probabile, essendo stata espressamente avvertita questa Corte di non dare troppo peso alla espressione ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ in quanto si tratterebbe - così argomenta il P.M. - soltanto di una affermazione di principio pleonastica, con la quale il legislatore avrebbe semplicemente recepito concetti già elaborati dalla giurisprudenza senza richiedere, dunque, per pervenire ad una pronuncia di condanna, un quid pluris rispetto alla normativa precedente.
L’argomentazione del P.M. può essere condivisa solo in parte. E’ vero, cioè, che anche prima dell’affermazione normativa del principio suddetto la condanna poteva essere pronunciata soltanto quando le prove a carico erano tali da superare la presunzione di innocenza dell’imputato, che informa tutto l’ordinamento (art 27, 2° comma, della Costituzione ma per esempio anche l’ultima parte dell’art. 527, 3 comma c.p.p.), cosicché, anche in presenza di prove a carico ma non del tutto sufficienti o contraddittorie, la pronuncia doveva essere di assoluzione. Ma affermare che la riformulazione, effettuata dall’art 5 della legge 20 febbraio 2006 n. 46, dell’art. 533 c.p.p. con l’inserimento del principio suddetto, sia stata una operazione - per così dire - di ‘mera chirurgia estetica’ sembra svilire il significato profondo di tale principio, che il legislatore invece ha voluto ribadire.
E del resto l’esame dei lavori parlamentari, che hanno preceduto la deliberazione della legge 20 febbraio 2006 n. 46, rivela che si tratta di un principio di civiltà giuridico largamente condiviso non solo, ovviamente, da coloro che hanno votato a favore della legge ma anche da coloro che hanno manifestato la loro contrarietà, dal momento che non l’hanno manifestata per una non condivisione della sostanza del principio, ma soltanto per valutazioni di tecnica normativa, ritenendo che potessero sorgere dei problemi di coordinamento tra il nuovo testo dell’art 533 c.p.p. e l’art 530 c.p.p..
La condizione richiesta da tale norma per pervenire ad una pronuncia di condanna non consente, dunque, di formulare una convinzione in termini di probabilità: per emettere una pronuncia di condanna non è, cioé, sufficiente che le probabilità della ipotesi accusatoria siano maggiori di quelle della ipotesi difensiva, neanche quando siano notevolmente più numerose, ma è necessario che ogni spiegazione diversa dalla ipotesi accusatoria sia, secondo un criterio di ragionevolezza, niente affatto plausibile. In ogni altro caso si impone l’assoluzione dell’imputato.”

Helmann e Zanetti citano quindi tre sentenze della Cassazione, due del 2009 e una del 2010, a supporto della propria tesi.

Adesso la motivazione più recente (Nencini) in merito al caso Kercher cita (pagina 309) una sentenza del 2012 della Corte di Cassazione che di nuovo propende nel senso che la modifica dell’articolo 533 non ha introdotto un criterio più rigoroso per la valutazione della prova.

Il meno che si possa dire è che la Corte di Cassazione non ha costantemente affermato alcunché, ma piuttosto che ha sentenziato cose diverse, anche di senso opposto, in tempi diversi.

Queste interpretazioni in conflitto tra loro di un principio relativamente nuovo (come si è visto la formula “al di là di ogni ragionevole dubbio” è stata introdotta nel codice di procedura penale solo nel 2006) possono forse essere la spia di uno scontro tra fazioni (o “partiti”?) all’interno della magistratura italiana, con una fazione che favorisce l’interpretazione più favorevole all’imputato ed una che vi si oppone.

In tal caso il campo di battaglia tra le opposte fazioni non sarebbe l’Italia in quanto tale, ma piuttosto i casi più noti e mediatici degli ultimi anni.


Appendice III - Cos’è “osmotico”?

E’ diventata una parola in voga da quando è stata impiegata nella sentenza della Cassazione che ha annullato l’assoluzione di Knox e Sollecito: la valutazione “osmotica” delle prove sostenuta dalla Suprema Corte è un perfetto esempio di come un principio, in se stesso corrretto, possa essere applicato in modo pericolosamente errato in pratica.

Alla lettera, la valutazione “osmotica” delle prove dovrebbe solo significare che gli elementi di prova devono essere valutati globalmente, per vedere se presi tutti assieme essi permettano di raggiungere conclusioni che non sarebbero permesse da ognuno di essi presi individualmente.

In se stesso ciò sembra ragionevole e per di più corretto, ma come viene implementato nella pratica?

Ciò che realmente succede in motivazioni quali quelle di Massei o di Nencini o in tante altre riguardanti altri casi, è che molti supposti elementi indiziari, ognuno di essi non solo non conclusivo in se stesso (un indizio non può esserlo per definizione), ma addirittura più supposti che reali e la cui stessa esistenza è dubbia vengono addizionati per creare uno scenario che implica la colpevolezza dell’imputato e quello scenario viene poi deciso essere la verità giudiziaria “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

Per esempio, nel caso Kercher uno scenario che comporti la colpevolezza di Knox e Sollecito è immaginabile se:

- Curatolo ha realmente visto loro e non qualcun altro, per di più in un altro giorno;

- Quintavalle ha ragione e la sua dipendente Chiriboga torto e se i suoi ricordi hanno avuto veramente bisogno di più di un anno per acquisire la certezza dell’identificazione della Knox;

- le famose impronte reagenti con il luminol appartengono realmente alla Knox, anche se una più dettagliata delle altre presenta caratteristiche morfologiche incompatibili con il piede destro della Knox E se esse sono state veramente impresse con il sangue, cosa che richiederebbe fallimenti multipli del test del TMB;

- c’è stata una qualche pulizia selettiva della scena del crimine che ha lasciato solo le tracce di Guede, anche se poi la Knox ha cercato di proteggere Guede (ovvero colui di cui ha lasciato le compromettenti tracce sulla scena del delitto) accusando Lumumba, OPPURE la pulizia NON è stata selettiva ma la stanza dove ha avuto luogo l’omicidio non è stata pulita, rendendo alquanto inutile qualsiasi pulizia al di fuori di essa, e per di più, in tal caso, perché le impronte “insanguinate” sono state trovate solo fuori di essa e non anche al suo interno, visto che chiaramente al suo interno si collocava la fonte del sangue?

- il supposto DNA sulla lama del coltello esiste davvero ed appartiene realmente alla vittima, anche se le stesse macchine che lo avrebbero rivelato non sono riuscite a trovare il DNA contenuto in una goccia di sangue visibile ad occhio nudo trovata sulla finestra della stanza della Romanelli (reperto 199), una goccia che risulto positiva al test del TMB mentre così non fu per il coltello, il quale poi certamente non mostrava sangue visibile ad occhio nudo;

- ogni cosa reagente al luminol è fatta di sangue, ma allora che dire dei reperti 93 e 95, entrambi tracce reagenti con il luminol a casa di Sollecito (una nel bagno ed una in camera da letto) e mostranti un profilo genetico misto di Knox e Sollecito? Chi ha ammazzato chi in questo caso? Nessuno dei nostri bravi giudici ha intuito che magari tali tracce smentiscono l’equazione “DNA + luminol = sangue = omicidio”?

- non c’era alcun DNA di Sollecito al villino che potesse spiegare la contaminazione del gancetto del reggiseno, ma se la Knox in meno di dieci giorni ha lasciato il suo DNA da Sollecito, anche Sollecito potrebbe aver ben lasciato il suo al villino nel corso delle cinque visite che vi compì in un intervallo di tempo ancora inferiore; e se tale DNA non è stato trovato (eccetto che su di un mozzicone di sigaretta) bisogna anche ricordarsi che nessun profilo sconosciuto corrispondente alla Romanelli e alla Mezzetti è stato trovato nelle loro stesse stanze, quando loro vi vivevano da ancor prima dell’arrivo di Knox e Kercher: è chiaro che non c’è stata una raccolta di campioni “esaustiva”;

- l’effrazione è davvero una simulazione, anche se la distribuzione dei frammenti di vetro dentro la stanza è compatibile solo con un sasso lanciato dall’esterno, anche se ci sono video a dimostrare che quella parete è scalabilissima e anche se i pezzi di vetro sopra gli abiti non significano nulla, visto che sono stati ritrovati anche in autentiche effrazioni e che comunque poi bisognerebbe spiegare anche i vetri sotto gli abiti;

- si può mettere assieme una sequenza temporale credibile, considerando le informazioni provenienti dal computer di Sollecito, gli “avvistamenti di Curatolo” e i dati del telefono di Meredith (comprese le chiamate non fatte).

Un movente credibile sarebbe gradito (e in realtà esso ha una certa importanza per la giurisprudenza nei processi indiziari), ma un vero movente si basa su reali prove fattuali o testimoniali, non su supposti conflitti tra la vittima ed uno degli imputati.

Se qualcuno avesse testimoniato a proposito di scontri, liti, o anche solo sguardi cattivi tra loro, meglio ancora se con un’escalation, allora potremmo avere un movente, ma senza tutto ciò, tutto quello che i colpevolisti hanno (e per di più manco espresso in quel senso nelle testimonianze) sono solo supposti problemi sulle pulizie di casa o, ancora peggio, apodittiche affermazioni sul fatto che la Knox odiasse la vittima, non si può parlare di movente.

Si può mettere assieme tutto quanto detto sopra e cucinare una storia che comporti la colpevolezza degli accusati? Forse, ma con che livello di probabilità? Qualcuno che scrive libri sull’uso della matematica nei processi potrebbe provare a calcolare la probabilità complessiva di un evento che dipenda da così tanti fattori a bassa probabilità individuale.

Ma visto che quando si prova a sostituire i numeri alle parole si vedono abbondare le assunzioni arbitrarie (ovvero si danno letteralmente i numeri), è meglio rimanere sui principi generali e considerare che anche se uno potesse mettere assieme una storia del genere, essa non sarebbe certamente più probabile di una storia dove si consideri vero l’opposto di quanto assunto sopra, perciò una storia che comporti la colpevolezza non solo non è “al di là di ogni ragionevole dubbio”, ma non raggiunge nemmeno il livello di “causa probabile”.

Se ora facciamo intervenire la versione degenere del principio “osmotico”, i suoi sostenitori affermeranno che è impossibile che tutti quegli elementi indiziari siano tutti quanti errati e che quindi, se li si considera tutti assieme la sola ragionevole conclusione è la colpevolezza degli imputati.

Come se le impronte diventassero davvero impresse con il sangue non in virtù di un test confermativo, ma perché Curatolo o Quintavalle hanno visto qualcosa, o come se una pulizia di cui non c’è prova alcuna (nel senso di tracce lasciate dalle spazzate fatte con un mocio, per esempio) diventasse una realtà perché c’erano i frammenti di vetro sopra i vestiti.

Prima di tutto con simili ragionamenti si può provare qualsiasi cosa, per esempio anche che gli imputati in realtà sono stati incastrati (cfr. “Amanda and Raffaele: Behind the Curtain” di Karen Parker Pruett http://groundreport.com/amanda-and-raffaele-behind-the-curtain/).

In secondo luogo, gli elementi indiziari devono essere “certi nella loro esistenza”, non solo “probabili” o “supposti” (Cass. 2013/44384 Stasi pagina 74-75), perciò, ad esempio, le impronte per essere considerate impresse con il sangue, devono essere con certezza provate quali impresse con il sangue, altrimenti si hanno solo delle generiche impronte, il cui valore probatorio è praticamente nullo e non basta supporre vagamente che il test del TMB ha fallito per ognuna di esse e che il luminol rivela “principalmente” il sangue. Anche un movente, per essere considerato un indizio, deve essere certo nella sua sussistenza, non asserito o supposto.

Un simile test di “certezza dell’esistenza” della prova indiziaria andrebbe applicato ai ricordi di Curatolo, alla tardiva sicurezza di Quintavalle nei suoi ricordi, alla reale esistenza del DNA sulla lama del coltello, alla reale esistenza di un’attività di pulizia, e a molto altro.

Un caso che si basi su elementi indiziari supposti, la cui certa esistenza non è provata, è un caso basato sui sospetti, non su un qualsiasi genere di prova.


Ringraziamenti

Desidero ringraziare Colleen Conroy, Rose Montague e Clive Wismayer per l’aiuto fornito per la versione inglese di questo articolo e per i loro preziosi suggerimenti.


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